sabato 28 giugno 2008

Le mele di Cezanne


Le mele di Cezanne come il senso della solitudine buona. Le mele di Cezanne come il mistero di quelle cose che riconducono l’uomo verso sé stesso.

L’ultima immagine dell’“Età barbarica” di Arcand è molto bella… l’Uomo che durante tutto il film ha cercato di combattere la propria solitudine, l’incomunicabilità con la famiglia e il lavoro frustrante trova una via di speranza proprio nella solitudine. Non nella solitudine fatta di tutti, di cui ho parlato altre volte, ma nella solitudine vera. Nella fuga mundi.

Non bisognerebbe mai vivere troppo a lungo immersi nella quotidianità.

La quotidianità corrode il senso della vita.

E alla lunga rischia di corrodere il senso delle mele di Cezanne.

lunedì 23 giugno 2008

Panta rei...

Ad un certo punto mi sono girato e l’ho vista alla porta. Bellissima e raggiante nel suo abito da sposa.

- Ben…

Sorrideva.

- Ben… come sto?

Mi sono avvicinato, le ho preso le mani e ho cercato di domare il mascolino imbarazzo.

- Sei un incanto Mara… stai benissimo…

- Dici sul serio?

- Ma certo. Chi l’avrebbe mai detto che un giorno…

Si prova una sensazione strana ad essere l’invitato-cameraman delle nozze di persone con cui sei stato ragazzino insieme. Non vi nascondo che vederla immersa in quella nuvola di tulle sia stato piuttosto… vabbè, non volevo usare questa parola.

Vederla è stato oggettivamente emozionante.

Sì, Benjamin Brown, nove anni di matrimoni alle spalle, un po’ si è emozionato. Perché Mara è egocentrica, svampita e naif. Ma la conosco da quando aveva quindici anni e come me tutto il gruppetto di amici della panchina.

Durante la messa Mara mi ha fatto più volte l’occhietto e la linguaccia.

E anche se la sopporto a fatica da quindici anni, avrei voluto ringraziarla per quel “Ben… come sto?” che in un istante mi ha fatto attraversare 15 anni di vita, di amicizia e di innocenza.

Cazzo come sto invecchiando…

mercoledì 18 giugno 2008

Impertinenza


E ancora, imperterrita e presuntuosa,
qualche bambina si ostina
a giocare con un pezzo di corda appeso ad una ringhiera.

Graffiando con le sue risate impertinenti
la storia che ha scavato questi vicoli.

domenica 15 giugno 2008

Compagni di scuola

E poi, ai matrimoni, incontri i vecchi compagni di scuola. Almeno una volta a stagione. Almeno una volta a stagione c’è un compagno di scuola che non vedi da anni e che – ovviamente ubriaco – ti invita al brindisi.

- No grazie, lo sai che non bevo. E poi figurati in servizio…

- Ma non rompere i coglioni Ben…

Mi bagno le labbra. Meglio perdere una battaglia che la guerra.

- Allora come stai Ben, dimmi dimmi… che fai nella vita che fai? Fai i matrimoni?

- Mah, in realtà… si, dai. Ogni tanto faccio qualche lavoretto… ma dimmi di te! Che fai che fai nella vita di bello che fai?

- Io? Lavoricchio pure io… un po’ qui un po’ lì. Certo non come Sergio…

Come temevo. Nella mia precedente vita penso di essere stato un gerarca nazista. Altrimenti non si spiega il motivo per cui da dieci anni mi tocca continuamente prendere parte al rito penoso del “where’s who?”… Quello si è sposato (“s’è ingabbiato, l’amico! A me quando me fregano?”), quello è andato a vivere in India (“eh sì, è sempre stato un tipo strano strano”), l’altra è rimasta incinta (sguardo malizioso), quell’altro è dottore (“che vuoi… è sempre stato un genio…”).

Oggi ero così preparato che in quindici minuti ho snocciolato nomi, cognomi, occupazioni ed eventuali matrimoni dei 26 personaggi passati per il nostro liceo, completando la performance con un sorso di spumante e raccogliendo uno stupito “Ahò Ben, ma sai tutto! Beh certo, a forza de matrimoni…”.
Eh sì, so tutto e c’ho un po’ le palle piene di questo rito.
Mi mette tristezza, mi ricorda “Compagni di scuola” di Verdone...
E mi ricorda che il tempo se ne frega delle nostre malinconie e delle buone intenzioni con cui vorremmo evocare i “bei tempi andati”. Che poi – ad essere pignoli – “bei” non erano proprio, avendo i loro consistenti lati di merda.

La realtà è che il tempo se ne frega anche di quei lati di merda.

E come un placebo ci regala l’illusione di un bucolico, spensierato, gaudente passato liceale.

Forse dovrei iniziare a bere.

sabato 7 giugno 2008

Notturno numero due

In Irlanda c’è una frontiera di roccia dove il vento urla furioso e continuamente si confronta con l’atlantico grigio.

Lei ama la tempesta. Alle volte, mentre sto in cucina, la osservo attraversare il prato e sedersi di fronte all’attesa del tempo. Lei e il temporale si studiano, si osservano. Lei cerca i suoi occhi all’orizzonte e lui si cheta. Il mare si placa un poco. Come i suoi capelli neri, sparsi un po’ ovunque sul viso.

Li osservo dalla finestra azzurra. Sembrano entrambi fatti di elettricità.

Poi il cielo si mangia Inis Meáin e il vento riprende a sbattere il mare contro la pietra, sempre più forte. Lei si alza e si avvicina allo strapiombo. Si volta di scatto: è la voce della roccia che la chiama. Il mostro lancia il suo lamento, un lamento di acqua e pietra che proviene direttamente da dentro, dal cuore stesso dell’isola. Da quello che i vecchi chiamano poll na pBeist, l’antro del serpente.
I suoi occhi tornano all’orizzonte, i capelli scarabocchiano l’aria.
Le mani si irrigidiscono, le labbra si contraggono.

Sono certo che potrebbe.
Da un momento all’altro.
In un istante.

Potrebbe, si, potrebbe lanciare il verde dei suoi occhi contro il cielo.
Potrebbe, si, aprire le mani e afferrare l’intero strato di nubi.
Potrebbe fondere la roccia, si, lo so che ne sarebbe capace.
Potrebbe, si, so che potrebbe – se solo lo volesse – spalancare il suo ventre e lasciar esplodere una forza più devastante di tutte quelle nubi, di quei fulmini e di quel mare.

Lo sanno fare tutte le fate da queste parti. Ma io vorrei che restasse ancora in questa casa di paglia e sassi.

Allora esco.
Le metto lo scialle sulle spalle.
E lei sorride.
Ancora non fuggirà.

martedì 3 giugno 2008

Se morissi...

... mi riposerei.
Tanto.