lunedì 23 novembre 2009

Happy birthday...

Ci sono ancora. Entro, passo, spolvero e a volte metto in ordine. Se sono in forma riesco persino a portare qualcosa di nuovo da offrire ai viandanti del web.


Ieri erano 3 anni. Di botteghe, di speranze, di attese, di amicizie.

Come tradizione trovate vin brulé e biscotti per tutti, sotto un cristallino cielo autunnale...

A bientôt,
Ben

domenica 8 novembre 2009

L'amore ai tempi dell'atrofia

È un liquido denso e verde quello che riempie il bicchierino di plastica.


- Assaggia, – mi fa – me lo ha portato lei quando è venuta…
- Il colore non promette granché ma il profumo è buono
- È un liquore al pistacchio, dice che è tipico delle sue parti

Brindiamo nei bianchi calici, guardandoci negli occhi. Da un po’ nel suo sguardo c’è una luce strana. Innamorato, si, lo so bene che è innamorato. Ma si è ficcato in una storia dannatamente simile ad un vicolo cieco: lei vive in America e fra poco sposerà un ragazzo che non ama, un ragazzo di quelle parti. E lui, il mio amico? Forse è capitato nel momento sbagliato della vita della persona giusta, non saprei. Certo che è davvero innamorato. E nei suoi occhi c’è quella flebile luce, quel riflesso…

- Non so che fa’, Ben… non so più che dirle
- Dille di non sprecare l’amore, che già ce n’è poco in giro… dille di non partire, che è ovvio che debba restare vicino a te, che una sistemazione per lei la troviamo…
- C’ho provato, c’ho provato… è che lei… paura forse, non se la sente dice…
- Si, questo l’ho capito. Ma il matrimonio è una scelta per la vita.
- Lo so, lo sa anche lei… dice che non dobbiamo rivederci mai più, però poi ha deciso di tornare a stare da me prima di ripartire… ha ammesso che… che… mica lo voleva dì, eh… però alla fine… mi chiedeva di tenere la luce spenta quando… quando… e io invece la tenevo accesa che nemmanco me n’accorgevo, e allora non se n’accorgeva manco lei… però me guarda e me dice de non guardarla così, che non devo fa’ lo stronzo, che non devo guardarla così… e io invece la guardo. La guardo, sì, la guardo e mi sento un cretino, mi sembra di essere il cretino più cretino del mondo. Ma intanto non ne posso fa’ a meno… e le tocco il viso. Anche quello mica voleva… “io non mi faccio toccare il viso da nessuno!” diceva… se se, come no… io manco me ne rendevo conto ma le toccavo il viso in continuazione… e lei non diceva niente…

Non dovrei riportare queste confidenze, forse sto diventando un cattivo bottegaio. Sono confidenze intime fatte ad un amico, probabilmente confidenze uniche: non credo che ne abbia parlato con altri. Si, forse sono davvero un cattivo amico.

- Tu devi stare tranquillo. Di poche cose sono sicuro: tu non la dimenticherai mai ma anche lei non potrà mai scordare come l’hai guardata. Non lo dimenticherà mai il tuo sguardo. Forse, abbracciando l’uomo che non ama, il pensiero del tuo sguardo le farà trovare il coraggio che le manca. Forse. E forse no.

Lo guardo fissare il bicchierino vuoto. Lo guardo in silenzio strizzare gli occhi. Lo guardo lanciare indietro la schiena. Mi fa pena guardare quegli occhi, mi sento come se ascoltassi un fratello minore che vive cose che conosco alla perfezione, cose già viste, ascoltate, vissute.
Forse non dovrei riportare queste confidenze. Però in fondo questa è un’anonima bottega situata nelle più remote periferie del web: non credo che nessuno se ne avrà a male. E allora vi lascio sugli scaffali una cosa.

La luce negli occhi del mio amico.

Non era pena quella che provavo, e in fondo mentivo a me stesso a pensarlo. Era invidia.
L’invidia di quella speranza che alimenta lo sguardo e il cuore, l’invidia verso un cuore che soffre in mezzo a mille altri ormai atrofizzati. La speranza che ho provato anch’io, tanto tempo fa. La speranza che avevo scordato, che in troppi hanno dimenticato. Ainda pochi giorni fa mi ricordava che bisognerebbe essere pronti ad accoglierla la primavera.
E allora, amico mio, non soffrire se lei partirà. Lotta piuttosto per alimentare la speranza.
La stessa che fa girare il mondo.

venerdì 30 ottobre 2009

Paradise lost

C’è un posto su questo mondo che contiene una cosa a me cara. Si tratta di un posto molto piccolo e di una cosa molto preziosa. È un posto che vorrei descrivere con tutti i particolari possibili, per rendere l’idea. Eppure sarebbe una perdita di tempo, perché la sua bellezza va ben oltre il suo aspetto.
È un posto molto piccolo e direi anche molto isolato. Si tratta di un antico borgo perduto in mezzo ad un bosco di castagni, in Garfagnana: una manciata di case, per lo più mezze diroccate, che si radunano intorno ad un’antica chiesa, come a proteggerla. E la chiesa – di cui non ricordo neppure la dedica – è protetta da una grande casa canonica, che è il punto specifico del mio interesse.
Una grande casa che contiene la felicità più pura di quando ero bambino. Di quando tutta la famiglia di mia madre passava il mese d’agosto riempiendo quelle stradine deserte delle proprie risate e degli scherzi, delle litigate fra gli zii e dei ritmi di una curiosa comunità. Potrei passare intere ore ad elencare i miei ricordi. Ma neppure i ricordi saprebbero rendere l’idea che voglio trasmettere. La bellezza di quel luogo va oltre i ricordi di un ex bambino.

Oggi sono tornato in quel borgo, che ho trovato molto diverso dai miei ricordi. Intanto alcune case, quelle più grandi, sono state comprate e restaurate da facoltose famiglie inglesi che le utilizzano una settimana all’anno. La casa canonica dei miei ricordi sta per essere ripresa dalla diocesi che per quarant’anni ci aveva concesso l’utilizzo. Il tetto è quasi del tutto crollato, portandosi dietro l’intonaco di intere camere. Altre casette che pure ricordavo abitate d’estate ora assistono silenziose e decrepite allo scorrere del tempo.
E di tempo ne è passato parecchio di lì. Leggo le lapidi, osservo la chiesa, ascolto le grida dei bambini dei primi del novecento che uscivano dalla microscopica scuola. Il vento batte i grandi platani del piazzale e mi lascia immaginare lo sciabordio dei panni lavati dalle donne. Incisa sul marmo della chiesa è la memoria di tre abitanti che mai tornarono dalla Grande Guerra. Su molte pietre sono incise date del sei e del settecento. Dalla finestra di una cantina si intravede un’enorme botte, che ancora sanguina la pece usata per sigillarne gli assi. Se mi impegno riesco a sentire il profumo della vendemmia, mentre sto attento a non calpestare i funghi che mi tagliano la strada.

È una strana e potente vertigine ascoltare il vento che attraversa un intero borgo deserto. È il grido di una comunità che aveva abitato quelle strade con le proprie voci, con i propri desideri e aspirazioni. Intere generazioni di cui oggi non resta che un silenzioso ricordo, un’umanità di cui a malapena si tiene la memoria. Vi giuro che il silenzio di quel posto non è un silenzio normale. Ve lo giuro, credetemi se potete.

Girando e rigirando, con la testa confusa dalle voci che non parlano, mi imbatto in alcune stanze senza porte e finestre che danno direttamente sul panorama. Una moderna ristrutturazione abortita a quanto pare. Osservo il cemento che incoraggia le pietre e i preparativi per un intonaco mai realizzato. Poi mi fermo a fissare le montagne di fronte, che esplodono dei colori dell’autunno, e improvvisamente gli occhi scovano una scritta bianca. No, non è una scritta d’epoca. È lo stampatello acerbo di una ragazzina, si capisce. Un gessetto su pietra datato 25/5/2003. Sei anni fa una ragazzina è stata qui. Non era sola e ha scritto questo.

È STATO BELLISSIMO ANCHE OGGI!! IO E TE STRETTI STRETTI, NUDI E SOTTO LA PIOGGIA! SARA’ COSI’ PER SEMPRE…

Piccola, grazie per aver condotto proprio qui il tuo amore vivo, entusiasta e puro. E grazie per aver voluto lasciare una traccia del tuo passaggio, la testimonianza che l’amore ha ancora abitato quelle vecchie case annerite.

martedì 20 ottobre 2009

Della bellezza, di Dio

Scherziamo sulla Siberia e su alcune città dai nomi impronunciabili. Ride tanto, con tutto il volto. Persino i suoi capelli bianchi sembra che ridano. La moglie sorride anche lei. Con un sorriso profondo incastonato in un grande fazzolettone rosso a pois bianchi che le copre il capo. Sembra una matrioska a dieta.
È una visita per pochi quella che intraprendiamo. Solo i nostri passi e le nostre risate spezzano il silenzio cristallino del monastero d’ottobre. Mi spiegano che sono brasiliani, nonostante parlino un italiano e un francese limpidissimi. Io non so che impressione farmi di loro: fisicamente sembrerebbero due profughi dei primi del novecento, però quando gli racconto storie mi ascoltano e partecipano. Scherziamo molto: lui fa continue e feroci battute anticlericali.
Poi io e lui facciamo una scommessa: gli garantisco che il terzo chiostro è in assoluto il più bello. Lui mi sfotte. La bellezza è soggettiva, non dovrei dire certe cose, mi dice. Ma sta al gioco, ci stringiamo la mano e varchiamo la soglia.
Il suo sguardo ingordo percorre l’ambiente, attraversa le colonnine bianche di Carrara e si fissa sul campanile, stagliato contro uno degli azzurri più puri che il creato sappia regalare.
- Es muy bonito… bellissimo…
“Incredibile – penso – gli trema la voce”. Poi l’osservo e mi accorgo che sta piangendo.
- Lindo… Extraordinàrio…
Ancora piange e io vorrei solo smettere di parlare. Sento che le mie parole possono solo sporcare questo momento. Poi mi chiede di andare avanti e così faccio, procedendo fino alla fine con tutta la passione che ho. Quindi il commiato e la sua ultima stretta di mano.


- Grazie Ben. Mi hai aperto le porte di una straordinaria bellezza.
- Beh, non è certo merito mio! Il posto fa tutto da sé
- Non è vero. Lei conosce Trastevere?
- Certo
- Ha presente in che condizioni si trova?
- Beh, si.
- Ormai quasi nessuno crede nella bellezza. Ma chi uccide la bellezza uccide Dio.

E io vorrei solo abbracciare quel vecchio brasiliano. E piangere.

mercoledì 5 agosto 2009

Se la vita è una brochure...

Uno seduto dietro la scrivania, l’altro in piedi nelle sue clark. L’Architetto mostra il suo sdegno.
- Accidenti, ma queste brochure… queste brochure… sono da-vve-ro-rre-nde. Veramente. Io proprio non capisco. Cioè, va bene il convegno, la mia collaborazione con l’associazione e tutto quanto… ma queste brochure, diamine… le ho fatte vedere anche alla collega, alla Mariotti Corsi. Anche lei davvero allibita… dice “si, ma potevano presentarlo in un altro modo… queste brochure, queste brochure…”. Misere, mediocri, pessime… non c’è che dire. Il manifesto pure pure… ma queste brochure, sant’Iddio… queste brochure…
Non sono stato accurato in precedenza.
C’è uno seduto dietro alla scrivania che ascolta.
E poi c’è l’altro in piedi nelle sue clark che parla esprimendo tutto il suo sdegno.
E poi ci sono io.
L’autore delle brochure.
Quello seduto sa e tace imbarazzato, quello che parla non sa e continua nella sua crociata.
- E poi mica vorremmo mettere queste brochure sulle sedie del convegno? No, non scherziamo. Per fortuna ci ho pensato io a realizzare queste. Guardate: questa sì che è grafica! Guardate che composizione… che geometrie, che colori… pensate, il grafico della tipografia prima di conoscere me era un totale incompetente, non sapeva fare a s s o l u t a m e n t e niente. Poi, da quando lo aiuto io… è cambiato completamente… ora le tipografie se lo litigano! Potevate farle fare a lui queste brochure, no? Ma chi diavolo ve lo ha fatto questo scempio?
- Veramente le ha fatte lui…
È divertente cogliere l’imbarazzo di una persona quando te lo aspetti da un po'. O meglio, sarebbe divertente se dopo l’attesa effettivamente arrivasse. In questo caso proprio no: dimenticavo che un rotariano non chiede scusa, non si imbarazza e – credo ma non sono certo – non defechi.
- Ah. Vabbè. Non posso farci nulla. Queste brochure sono inguardabili.

E io sono veramente stupito di me. Perché per la prima volta, davvero, non me ne frega un cazzo di quello che pensa una persona rispetto al mio lavoro. Per tutto questo lungo sfogo l’ho ascoltato sorridendo, e sorridendo ho salutato dopo il suo definitivo giudizio. Sono salito in sella alla mia moto, poi sul divano rosso della mia sala azzurra. E ho messo un album piacevole che si intitola: “Some people have real problems”.
E sto bene.

lunedì 20 luglio 2009

Ceci c'est pas amour

Li guardo.
Danzano.
Ondeggiano occhi negli occhi.
La musica scorre sotto i loro piedi banale, insulsa e ruffiana.
Danzano.
Si dicono “ti amo” con gli sguardi.
Sono raggianti.
Belli.
Come le statuine sulle torte nuziali.

Io sono un inadeguato.
Io credo che non mi sposerò mai.
Io credo che non mi sposerò mai perché non riesco a non essere coerente.
Io credo che non mi sposerò mai perché non riesco a non essere coerente, e pertanto proprio non riesco a convincermi che l’amore non sia tutta una faccenda culturale.
Lo so.
Dieci anni di matrimoni mi hanno reso cinico e – forse – baro.
Però è così.

Gaber disse una volta: «Io, per me, ogni volta che dico ad una donna “ti amo”, non so mai se è vero, e quanto. Certo, il delirio di mentire e credere è una cosa che si prende così… come il raffreddore. Questo non vorrebbe dire. Quello che per me conta è sapere quanto si finge e quanto si fa sul serio. Perché è proprio da lì, da questa pulizia del sentire, che si può trovare il coraggio di ridare un’occhiata al mondo.»
Gaber si sposò giovanissimo, in chiesa per giunta, e visse tutta la vita amando una sola donna. Forse la sola ad aver accettato un uomo che aveva un così alto rispetto per la parola amore da non saperla pronunciare senza tremare, senza provare quella vertigine, quella paura che il suo sentire più pulito fosse insufficiente ad esprimere un “ti amo”.

E allora si va, ancora si viaggia.
Cercando una donna impossibile, in grado di accettare un sentimento che forse non esiste.

domenica 12 luglio 2009

Angeli & demoni

- Daniele, a mamma, dai un bacio alla zia! Non lo vedi com’è bella la zia col vestito da sposa? Dai un bacio alla zia!
- No.
- Dai Daniele… perché fai così adesso, eh? Su, dai un bacetto alla zia così il fotografo ti fa una foto!
- No, no e no. Oh.
Imprigionato in un micro tight bianco tappato da un cappello a cilindro di raso, Daniele è un bambino davvero molto incazzato. E deciso ad una ferma resistenza.
- Ma dai Daniele… ma perché non vuoi darmi un bacetto? Guarda che zia ci rimane male…
Resisti Daniele, resisti.
- Vabbè. Danié, se non dai il bacetto a zia mamma non ti dà l’ovetto kinder. Chiaro?
Non cedere Daniele! Stanno bluffando! Non hanno nessun ovetto… non fare quella faccia, non cedere! Stanno cercando di comprarti!
- HO. DETTO. NO!
Grande Daniele! Nessun bambino aveva mai resistito con tanto orgoglio alla corruzione mezzo ovetto kinder!
- Ma guarda tu che impunito! Guarda Giacomo, guarda Giacomo invece… Giacomo, dai un bacetto a zia! Ecco, lo vedi? Ecco… ooooohhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh… che beeello Giacomo che dà il bacetto alla zia!
Anche Giacomo indossa lo stesso micro tight bianco tappato dal medesimo cappello a cilindro di raso. Ma Giacomo è irrimediabilmente biondo. E quel tight sembra gli sia cucito addosso. Ed è silenzioso Giacomo. Silenzioso e ubbidiente. Un bellissimo, biondissimo, pallosissimo bravo bambino che nelle foto sembrerà un angelo. In tight. Bianco.
Mentre Daniele ha resistito, serrato nelle sue braccia conserte raccolte sotto il mento.


Nella foto di gruppo che riunisce l’esercito di bianchi paggetti e rosa paggette, gli sposi sorridono contenti ai piedi dell’altare, mentre si lasciano abbagliare dal flash. I bambini smarriti cercano con lo sguardo mamme e papà. Solo uno, con un sorriso beffardo, non si lascia cogliere impreparato dal lampo.
Nella foto di gruppo del matrimonio, in un vortice di tulle e raso, ciocche e fermagli, corpetti e nastrini, un bambino fa con inusitata veemenza il gesto dell’ombrello.
Fra le risate generali degli astanti e le sculacciate solerti dei genitori, il piccolo Gabriele è diventato il mio eroe.

domenica 28 giugno 2009

Il minestrone

- No, Sergio ha proprio ingranato… gli ospedali se lo so’ proprio conteso. Lo sai quanto se becca mo’, si? Più de 5mila al mese… cioè, non so se rendo…
Rendi, rendi.
- Pure Clara non se la passa male alla Unicredit. Alla fine per quello che ha fatto… lavora a percentuale, su progetti del 12-20mila euro, ti puoi immaginare. Prende il 10… cioè… non so se…
Si si, rendi.
- Io mi sono data un termine: ora prendo 2.500 al mese. Se a 30 anni non guadagno ancora 10mila euro al mese mi rimedio un calcio nel sedere per entrare in regione – come fanno tutti – e arrotondo lì. Dovessi anche darla a qualcuno. Tanto ormai funziona così. E poi 10mila al mese… capisci… non so se rendo…

La smetti con questo cazzo di “non so se rendo”? si si, rendi. Rendi perfettamente l’idea. Ho capito chi sei, cosa vuoi, cosa abita il tuo cuore. Ti auguro di ottenere tutti i soldi che desideri e ti auguro di goderteli come meglio credi. Ma ora ti prego: smetti di parlarmi. La tua esistenza è per me motivo di sconfinata tristezza, la tua scala di valori è l’antitesi di ciò in cui credo, la tua determinazione e la tua intelligenza costituiscono uno spreco a cui non c’è rimedio.
Non ti odio, né ti disprezzo. Solo non voglio ascoltarti.
Zitta, ti prego. Stai zitta.

Ho bisogno di ridere. Di ridere come Ninetto Davoli.
Ridere davanti a chi crede nel denaro.
Non ridere di loro: ridere per loro.
Sdraiandomi sulla terra, afferrando una zolla di terra, sentendo fame.

Che il cielo mi consenta di aver sempre fame.

venerdì 19 giugno 2009

Ex-stasi

- Brown ho letto i capitoli che mi ha inviato.
- Bene.
Sorride. Segno buono, immagino.
- Tutto a posto. Non ho praticamente nulla da eccepire.
- Bene professoressa, allora vado avanti così.
- Vada vada. Mi piace molto il modo in cui ha scelto di impostare il lavoro.
- Grazie.
Nel portico i ragazzi mi sembrano per la volta molto giovani. La mia tesi procede, avanza. Il portico non se ne cura: ragazze sorridenti lasciano fumare le loro sigarette fra le dita penzoloni, i ragazzi in pantaloncini corti si nascondono dietro le tracolle e i docenti fluttuano in giacca e cravatta lungo le arcate. Sembrano incapaci di produrre sudore, odore e espressione i docenti universitari.
La mia tesi avanza, insieme al mio morale stanco. Le gambe no, non sono stanche e hanno voglia di muoversi. Ho voglia di camminare, si, di camminare.


Roma brucia del suo giugno, l’asfalto sembra più nero d’estate. La voglia di camminare mi porta a Termini, che è la meta di quasi tutti i miei pellegrinaggi. Passeggio un poco fra le vetrine che non mi interessano, osservando i volti che osservano e quelli che no. Ho ancora voglia di camminare e sono sui binari.
Fra il binario 4 e il binario 5 c’è fermento. L’intercity inizia ad ingoiare i suoi passeggeri. Io li osservo, insieme ai loro bagagli e all’odore di catrame che d’estate sembra più nero anche lui. Osservo quella fretta che non capisco, rispondo ad una gentile signora che dovrà raggiungere l’estremità opposta del treno se vorrà sedersi sul posto prenotato. Lei sorride, mi ringrazia, scompare. Di fronte a me c’è il vagone numero 3 e ha la porta chiusa.
Attraverso la banchina, apro la porta e entro nel vagone.
Respiro a fondo, con gli occhi chiusi, come fossi in riva al mare.
Mi giro verso il corridoio e i suoi movimenti.

Scendo.

Non tocca a me, non ancora.


PS: lo so, ultimamente sono sempre più stati d'anima e poche piccole storie... forse è il periodo, forse l'età. Ma mancano anche a me...

sabato 30 maggio 2009

Le 3 s

E passi una vita a tentare di non sbagliare. Come uno slalom.
Impari ad evitare una bandierina e una la prendi. Poi ne eviti due e ne prendi un’altra. Poi riesci a scansarne quattro e sei felice, è un ottimo risultato.
Poi inizi a non sbagliare più.
E ogni volta che finisci la gara con zero errori senti che sempre più persone ti stimano.
Il pubblico è entusiasta dei tuoi risultati.
E tu sei contento, contento e solo.
Entri nella mentalità di non poterti permettere più errori: il tifo del tuo pubblico è tutto ciò che hai.
Allora cominci a diminuire il numero delle gare.
Compari sempre meno, in gare sempre più facili.
E sei sempre più stanco.
E non puoi mai sbagliare.

Saggio, stanco e solo.
Non si torna indietro.
Non si sa come andare avanti.
Saggio, stanco e solo.
Cosi appari, perché questo sei.
Questo hai coltivato.
Saggio, stanco e solo.

Humus

- Pronto? Ben?
- Si, dimmi tutto Samuele…
- Senti… Ho un problema…
Non è curioso che l’80% delle telefonate che ricevo cominci alla stessa identica maniera?
- Spara
- Avrei da impaginare una cosa ma sto già sommerso di lavoro… non è che potresti pensarci tu?
- Di cosa parliamo?
- Un libro.
Mi piace Samuele. Parla poco ma con precisione. E non dice mai più del necessario.
- Ma io non so impaginare un libro… al massimo ho fatto calendari…
- Beh, non penso lo troverai difficile…
- Vabbè dai, passo più tardi in tipografia allora?
- Si, penso che sia il caso. Anche perché il cliente vorrebbe il libro finito fra una settimana.
- Porca Eva…
Perché vanno sempre tutti di fretta? Che cazzo c’hanno da fare che corrono sempre tutti? E soprattutto: perché mi tocca sempre adeguarmi alla dannatissima fretta degli altri?

Ho davanti il materiale. 467 foto d’epoca digitalizzate. Mi rendo conto con una certa velocità che impaginare un libro fotografico è un’impresa piuttosto alienante, che diventa in poco tempo una questione meramente meccanica.
Copia, correggi, incolla.
Didascalia.
Copia, correggi, incolla.
Si compone pagina dopo pagina questo strano mosaico. Si compone davanti ai miei occhi questa memoria visiva di un paese, Riverbano, a pochi chilometri da qui. Si compone attraverso i ritratti di vecchie contadine degli anni venti e borghesi cravatte dei golden sixties, adunate di incoscienti figli della lupa e matrimoni giocosi. Si susseguono infiniti bambini, donne e uomini che hanno abitato e dato vita ad un fazzoletto di terra più piccolo di un quartiere romano. Sono tantissime le coppie di occhi che hanno visto morire i propri genitori e crescere i propri figli e nipoti.
Tanto fa l’uomo che alla fine sparisce.
Mi confonde.
Tutto questo andare, questo essere una molecola dell’humus di una comunità mi atterrisce e mi confonde. Eppure è vita. E tu non puoi farci nulla. Perché già nel momento stesso in cui scrivo queste righe sono parte di quell’humus, ingenuamente e presuntuosamente ossessionato dal volerne essere esentato.
Come ha fatto tanta gente a vivere un’intera esistenza senza lasciare altra traccia del suo passaggio che non fosse quella custodita dal dna della propria stirpe? E soprattutto: come faceva questa gente, queste intere generazioni di viandanti ormai passati, a vivere serena? E ad essere persino felice, a giudicare da alcune foto?
Ci sono giovani che ammiccano dietro una sagoma di cartone che riproduce una spider stilizzata. Militari che mi sorridono dalla Grecia del 1943. Ci sono donne che ridono in mezzo ad un campo, con i falcetti in bella mostra. E ancora pretini di campagna che conducono orgogliosamente il gregge sorridente verso un pellegrinaggio.
Da quand’ero dodicenne su una parete della mia cameretta appesi un orrendo poster nero con una scritta in stampatello bianca.

IL VERO PERICOLO PER L’UMANITÀ NON È LA BOMBA ATOMICA,
MA IL RISCHIO CHE L’UOMO PERDA IL GUSTO DELLA VITA.
L’ho tolto un paio di anni fa, non ricordo neppure di chi fosse.
Solo in questi giorni mi è tornata in mente, sotto una nuova luce.
E il suo senso non mi dà tregua.

giovedì 30 aprile 2009

Pain...

You will come to save me
C'mon and save me
If you could save me
From the ranks of the freaks
Who suspect they could never love anyone
'Cept the freaks
Who suspect they could never love anyone
But the freaks 
Who suspect they could never love anyone

lunedì 23 marzo 2009

Tears & sausages

- Ben, il film dell'altra sera... cioè, so' dovuta andare via per non mettermi a piangere...

- E perché non l'hai fatto? Mica è peccato!
Danzano i piatti di carta, portatori di salsiccie e panini. 
La bionda con due piatti si ferma vicino a noi, ne porge uno alla mia interlocutrice.
Mi lascio andare.
- Boh, secondo me è salutare commuoversi davanti a un film. O magari ad un quadro, o una musica... ci riporta ad una certa umanità...
La bionda mi fissa un momento con circospezione.
- Cioè: TU ti commuovi?
- Certo. Mica sempre. Ma ci sono esattamente 5 film che mi fanno piangere. E ne vado...
Non finisco la frase. Osservo la bionda che mi osserva con gli occhi sbarrati e il panino con la salsiccia per metà nella sua bocca. Nella sua mano un bicchiere di sangria aspetta impaziente.
Forse è meglio soprassedere.

sabato 31 gennaio 2009

Se morissi...

... Sulla mia pietra si potrebbe scrivere:


Qui riposa (finalmente) 

Benjamin Brown
(simpatico cialtrone)

Non fu particolarmente santo né peccatore,
ma trattò sempre tutti con grande umanità.

Un pensiero, se vi pare.
Per i reclami rivolgersi alla tomba di fianco.

mercoledì 28 gennaio 2009

Train de vie

Mi sono regalato un buon film per il giorno della memoria. Ho visto "Train de vie", che è pellicola sincera, vitale e anche un poco ruffiana. E' un film molto bello che metto volentieri nella vetrina della bottega. 

Alcuni dialoghi sono fulminanti.

– Schloime, perché sei tu il matto?
– Per caso. lo volevo fare il rabbino, ma il posto era già preso. Visto che mancava il matto, ho pensato: "Fai il matto, se no lo fanno loro. Fallo al posto loro".
– E non ti senti un po' solo?
– Oh no, non sono i matti che mancano...
– No, intendevo una donna. Perché non hai moglie, Schloime? Dei bambini, una casa?
– Ah no, non sono mica matto...
(pausa) Li avrei amati troppo… sarei morto d’amore. Impazzito...

sabato 24 gennaio 2009

Vecchio cinema inferno

Quand’ero bambino, non so se capitava anche a voi, non riuscivo a fare a meno di condividere una cosa che credevo bella. Mi chiedo se in effetti sia proprio dell’essere umano cercare di condividere con le persone le cose che gli danno gioia, non lo so. Non l’ho mai capito.

Io sono un appassionato. Non un genio né un fanatico. Solo un appassionato. Di cinema, letteratura, pittura e fotografia in un paese che da almeno cinquant’anni non possiede un cinema, un teatro, una libreria, un museo.
Sapete cosa significa per una comunità non possedere tutto ciò per un periodo così lungo? Significa generazioni cresciute senza sapere come si legge, come si vede un film, come si osserva.
Per me significa solo sentirsi soli.

Ma attenzione. Questo post non è uno sfogo depressivo. È una dichiarazione di resistenza.

Anche questa sera ho aperto la saletta della biblioteca, spento le luci e acceso il proiettore. Anche questa sera sono venute non più di quindici persone a vedere il film settimanale.
- Ben, l’hai scelto tu questo film?
- Diciamo che l’ho caldeggiato…
- Ma che film è?
- È un film israeliano molto…
- Se, ho capito va…
- Dico davvero! È un film molto bello. Essenziale ma molto umano…
- Se, vabbè… ma perchè non fate mai quelli dei Vanzina? Daje su, manna che sennò ce stamo qua tutta la sera… 

Poi succede che accendo il proiettore. E quando lo accendo su una pellicola che ho amato inizio a chiedermi se piaccia alla gente immersa nel buio. Percepisco gli sbadigli e le caramelle scartate, i bagliori degli sms e le parole sottovoce. Qualche risata. Poi il responso, che è sempre il solito.
Scorrono i titoli di coda.
- Ben… si carino… beh, insomma…
- Ben, poi me lo spieghi, eh?
- Ben, ma che ca… ma che film hai messo??
- Ben… io il senso mica l’ho capito, eh… cioè… si, però…

Ed è una lunga processione di voci al buio che mi stringono la mano, mi danno pacche sulle spalle e raggiungono la via di fuga nel più breve tempo possibile.
Mentre scorrono i titoli di coda.
Scorrono sull’ending che è sempre una musica molto bella.

A me, la musica dei titoli di coda, mi fa sempre incazzare.
La gente sembra venire al cineclub per fare un piacere a quel rompicoglioni di Benjamin Brown. O con l’animo con cui si va a messa la domenica, tanto per pulirsi la coscienza. Ce ne fosse uno che accetti, una volta, una sola volta, di abbandonarsi a ciò che vede.
Ci fosse uno che permette al film di raccontargli una storia. Mi piacerebbe anche solo che ci provasse...

Ci fosse una, una sola persona con cui condividere.

Resistere, resistere, resistere.
La buona notizia è che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.
E io sono un coltivatore in un paese di merda.

mercoledì 21 gennaio 2009

Pretty good year...

martedì 20 gennaio 2009

Alzando lo sguardo

Poi, improvvisamente, accorgersi spaventati di essersi spenti.

Fuoco, fiamma, candela. Fumo.

 

Quando si nasce viandanti il proprio destino è segnato: si cammina. E quando si è stanchi, molto stanchi, viene naturale camminare a testa bassa. Il naso puntato a terra e gli occhi che assistono il ritmo imperterrito e simmetrico dei piedi.

Ma quando si è stanchi, molto stanchi, se non si rialza il capo si rischia di perdere la direzione.

 

Quello che è successo a me.

 

Ho camminato talmente a lungo col capo chino da non accorgermi dei piedi che sprofondavano nella sabbia, non ho fatto caso al troppo silenzio, né alle stelle. Non mi sono accorto di essermi perso nel deserto.

 

Siete mai stati nel deserto? Io no. Però sono stato così incosciente da crearlo, il deserto.

E proprio in questi giorni, alzando gli occhi ho visto il nulla intorno a me.

Ho provato uno sconforto grande come il deserto stesso nel sentirmi perso e solo, stanco e perduto. Ho pensato di essere diventato cieco a forza di non osservare, sordo per non aver più suonato e pazzo per non aver più scritto. Ho pensato che persino il mio cuore si fosse atrofizzato, dopo anni di non amore.

 

Ho guardato dietro le mie spalle per vedere le mie orme cancellate dal vento e sono caduto in ginocchio. Volevo urlare ma il fiato si spezzava nella mia gola. Ho sperato di addormentarmi in un sonno eterno e farmi sabbia, e quindi abbandonato ai capricci del vento spargermi in ogni direzione possibile.

 

Il deserto è il luogo in cui il viandante affronta il nemico dai suoi stessi occhi.

 

E la cosa completamente spiazzante è stata accorgersi di quanto sia illusorio questo andare. Camminare tutta la vita inseguendo una meta, senza riuscire mai a coglierla. E non riuscire a coglierla perché la meta siamo noi stessi. Si può veramente passare una vita a cercare se stessi? Sarà mai possibile amare una persona, o dieci, o mille… senza prima aver capito, senza prima aver raggiunto l’unità dentro se stessi? Si può continuare a fare e disfare senza sapere chi si è?

Credetemi, in tanti anni di viatico non avrei mai immaginato quante forme potesse assumere il deserto, né avrei mai creduto all’idea di quanto feroce potesse essere il deserto dentro se stessi… 

lunedì 12 gennaio 2009

Casi di crisi

Dopo due anni conosco ormai tutti quelli che seguono la messa delle 9.00. Li aspetto sulla porta e so distinguerli dai turisti: quasi tutti hanno il passo svelto, sessant’anni e l’occhio a mezz’asta.
Non è facile alzarsi la domenica mattina. E a onor del vero anche io ho l’occhio a mezz’asta…
- Buongiorno Signor Carlo.
- Benjamin! Tutte le feste ti fai, eh?
- Sempre signor Carlo!
E tutti scompaiono dietro la porta.
- Come andiamo signor Luigi?
- Eh…
- Ma insomma, non mi risponde mai bene!
- Eh… Benjamin, ti ho mai raccontato della morte di mio nonno?
Ogni domenica mattina il signor Luigi mi racconta un episodio della sua famiglia.
- Ben, sempre qua stai, eh?
- A ognuno il suo zi’ Marì…
- E vabbè, finchè stai in grazzzia deddio… tiè, che te servono pe’ la voce…
Ogni domenica mattina zia Maria mi benedice con una manciata di caramelle alla menta.
- Dove eravamo rimasti l’altra settimana Ben? Ah si, gli equi…
- Si, mi pare…
- Allora hai presente la contrada della scaragna? Lì dove ha la terra il Roscio?
- Mi pare, si… (in realtà non ne ho idea)
- Ecco, lì quando il compare scavò le fondamenta vennero fuori i resti dell’ultimo insediamento degli equi. Che poi…
Ogni domenica il professor Giuseppe mi racconta un pezzo di storia del paese attraverso i ricordi dei suoi parenti.

Due anni. Tutte le benedette domeniche, alla prima messa.
Con ognuno la promessa è la medesima: “continuiamo la prossima volta Ben!”.

E invece no, stavolta no. Anche se non ho avuto il coraggio di dirlo a nessuno, il metronomo Brown non sarà alla prima messa.

Tecnicamente – fossi un dipendente di azienda – mi chiamerei “personale in esubero”. Praticamente lo chiamo niente più turni di lavoro a tempo indeterminato. E nonostante continuerò ad accompagnare saltuariamente i gruppi, un po’ di malinconia oggi mi ha colto nel fare l’ultimo tour del monastero. Forse è la sindrome di Stoccolma, forse solo l’amara consapevolezza di essere una delle vittime della crisi economica… o più semplicemente la sensazione di non esser più LA guida del monastero. Però fa un po’ triste.

E da domani torno borghese. Da domani torno a poter uscire il sabato sera e le feste, torno ad avere tempo libero.
Da domani torno ad essere un ragazzo normale.
Con il penoso dubbio che la normalità non mi appartenga più…