giovedì 8 aprile 2010

Sura della Tiburtina

Se stai morendo di fame e sei a Roma non hai problemi.
Se stai morendo di fame, sei a Roma ed è passata la mezzanotte di martedì hai un problema.
Se, per giunta, sei lontano dal centro, allora il tuo problema è anche bello grosso.
Non potete immaginare quanto cinica sappia essere la Tiburtina in un martedì notte. Né quanto sia confrontante un’orrenda insegna accesa con scritto “Ciro - Pizza e kebab”.
Fermo la macchina come trovo, senza neppure ragionarci troppo. E poi corro. Corro sì, corro verso quell’insegna che mi appare l’ultima spiaggia, un’oasi in questo buio deserto d’asfalto.
Il tizio è sulla porta e fuma. Evidentemente mediorientale, altro che Ciro. Quando mi vede non si scompone: appoggia a terra la sigaretta, la spegne con la punta del piede e poi entra, sorridendomi. Sorride? Cos’ha da sorridere?
Entro, mi guardo intorno: sono circondato da colori sgargianti, pizze fredde e pilastri di kebab pigri. Lui dietro il bancone inizia a giustificarsi: ora non ha molti condimenti per il kebab, né pizze calde di forno e neppure fritti recenti. Mi spiega che stava per chiudere e gli rispondo che non fa nulla, che va bene così, che mi basta un pezzo di pizza per fermare la fame fino a casa.
Sorride il mediorientale. Sorride e mi porge un piatto con dei fritti e una salsa biancastra. Gli dico che in realtà volevo solo un pezzetto di pizza e lui mi risponde di provare, che offre lui l’antipasto. Assaggio quegli strani involtini: senza la salsa sanno di cartone pressato e hanno un nome impronunciabile che rinuncio a capire dopo la terza volta che me lo ripete. È gentile il mediorientale. Gli chiedo quel pezzo di pizza lì, sì, quello lì con le melanzane. Sono due euro e pago subito. Lui mi taglia un altro pezzo, dicendomi che offre lui e che stasera – accidenti – stasera lo trovo sguarnito perché stava chiudendo. Di nuovo gli rispondo che davvero – davvero – non fa niente.
Fra un morso e l’altro gli chiedo se è lui Ciro. Il mediorientale si mette a ridere e mi dice che lo è, in un certo senso. Si chiama Mohammad Shirish, ma tutti lo chiamano Ciro perché il suo nome è davvero troppo lungo e complicato (né d’altra parte ho la presunzione di averlo scritto bene). Mi dice che è turco, ma turco curdo. È turco, curdo e fa il secondo kebab più buono di tutta Roma. Così dice, e io gli credo. Perché non dovrei d’altra parte? È gentile.
Mi spiega che ha due negozi: uno lì e l’altro a Centocelle. È molto contento per come vanno gli affari, anche perché lui non crea disturbo a nessuno: non vende neppure alcolici per non avere grane. E va tutto bene perché “Dio lo vuole”. Lo ripete una, due, tre volte: “se Dio vorrà, domani…”. Già, Mohammad Shirish, se Dio vorrà.

Faccio per salutarlo e mi chiede se voglio portarmi via un po’ di pizza avanzata: buttarla sarebbe un vero peccato e lui comunque domani dovrà infornare la nuova. Lo ringrazio e lui mi manda via con due vassoi sani di pizza di ogni ordine e grado. Gli stringo la mano. Ben, mi chiamo Ben mio caro Mohammed Shirish.
Mi chiamo Ben e spero di tornare presto qui per chiamarti col tuo vero nome, assicurarmi che quel Dio a cui ti affidi faccia il suo dovere e mangiare il secondo miglior kebab di Roma.

Sempre che mi venga concesso.
Nel nome di Allah, clemente e misericordioso.

sabato 3 aprile 2010

La rosa e il cactus

La processione si snoda lungo i vicoli illuminati da un arancio spesso. Centinaia di metri fatti di persone che camminano pronunciando litanie mentre pensano ai fatti loro. Dietro di me c’è Giorgio, ma per rendervene conto dovete abbassare lo sguardo: avrà non più di cinque anni e un coerente argento vivo addosso. Alzando di nuovo lo sguardo è possibile immaginare sua nonna dietro di lui, che si dispera nel cercare di farlo stare calmo parlandogli. Un po’ come sperare di convertire un talebano regalandogli un santino di San Girolamo.
Davanti ai due, lo dicevo, ci sono io e il ricordo di mia nonna. La nonna del paese, quella che dentro quei vicoli ci aveva vissuto un’intera esistenza e che nutriva di fettuccine le mie domeniche bambine. Nonna Rosa aveva un nome tanto bello quanto inappropriato: un centinaio di chili in un metro e mezzo la rendevano inequivocabilmente più simile ad un cactus che ad una rosa. Ma non si può certo pensare che i miei bisnonni avrebbero potuto chiamarla cactus, d’altra parte.
Ad ogni modo la mole di mia nonna non è particolarmente significativa. E non lo è neppure la sua capacità intellettuale, visto che a malapena sapeva leggere e scrivere. La cosa importante, quando penso a mia nonna, è soltanto la sua capacità di essere materna, di saper mettere al primo posto i membri della famiglia, che avrebbe difeso anche fisicamente in caso di necessità. Mia nonna Rosa sapeva farmi sentire al sicuro, protetto, da ragazzino.
E ogni volta che me ne andavo, la domenica dopo pranzo, prendeva un pettine e una manciata d’acqua e mi faceva la leccata sulla zucca. Mentre lo faceva mi ripeteva sempre tre cose, che mi sembra di sentire come fosse qui ora:
- Ricordatello sempre: la gente è cattiva. Ma tu ha da esse' sempre sincero e non ha da tene’ paura. Manco der dimonio!
Dio solo sa quanto avrei bisogno di mia nonna in questo periodo di gente cattiva e di grandi paure.