sabato 11 agosto 2012

Sarebbe bastato poco...


A Greccio, un paesino molto piccolo vicino Rieti, c’è una piazza con un ristorante a gestione familiare. Lo tiene aperto una vecchietta che sembra appena uscita da un filmato dell’istituto Luce e che continua a fare la pasta a mano per chi decide di mangiare da lei.
Il ristorante è molto piccolo e ha il doghettato alle pareti, come si usava negli anni ’60. Sopra quel legno ci sono ninnoli impolverati e vecchie foto e specchi e altri oggetti improbabili. Da qualche parte sicuramente c’è anche una gondoletta di plastica. C’è sempre una gondoletta di plastica.
Fuori dalle finestre, invece, si vede questa piazzetta in cui non esistono macchine. Ci sono soltanto bambini che si inseguono, correndo intorno ai lampioni e alla grande fontana. E urlano come urlano le rondini d’estate.

Ecco. A me in fondo sarebbe bastato poco.
Condividere con una persona quel tavolino, nella piazzetta di Greccio.

Sarebbe stato bello.

venerdì 25 maggio 2012

De memoriae et papaveri


Oggi mi sono successe tre cose molto belle.
Da tanto non mi capitavano cose tanto belle da farmi sentire il bisogno di scriverle.
E invece stasera sento forte il bisogno di raccontarle, di condividere, di chiuderle in una bottiglia e abbandonarle alle onde di questo mare magnum.

La prima cosa bella è un incontro. Un incontro che mi capita ciclicamente e inaspettatamente da dodici anni.
La prima volta che la vidi, dodici anni fa, Michela mi salutò con la mano, con l’entusiasmo con cui si salutano gli amici. Ero all'università e ricordo che non capii perché una sconosciuta mi salutasse, tanto che pensai ad uno scambio di persona. Non era uno scambio di persona e da allora ci vediamo ciclicamente a distanza di mesi o di anni, in circostanze più o meno improbabili e spesso senza volerlo. 
Può succedermi oggi o domani di riconoscere Michela fra la gente che affolla la metropoli. 
Scoprendo inalterato quel sorriso che mi salutò dodici anni fa, prima della lezione di psicologia sociale.

La seconda cosa bella è un altro incontro. Un incontro che sposta nuovamente indietro le lancette della mia memoria.
Sette anni fa realizzavo i primi cortometraggi nelle scuole, con la complicità di quei ragazzi a cui ho voluto un bene dell’anima e con una gran voglia di ascoltarli e capirli.
7 anni fa, prima ancora che aprisse questa bottega, accompagnai una di loro al consultorio perché aveva deciso di abortire. Ho scritto diverse volte dello sguardo di Milena mentre l’accompagnavo in ospedale e cercavo di farla ragionare. Ho tentato di spiegare quel misto di rabbia, paura e orgoglio che sembrava scoppiare dai suoi occhi.
E oggi l’ho incontrata, in questo pomeriggio di randez-vous, con tutta la sua energia e la sua follia. Mi ha raccontato mille avventure vissute in questi anni, mentre io le continuavo a ripetere di stare attenta e di mettere la testa a posto, che ho voglia di fare molte altre chiacchierate con lei.
Ha sorriso molto Milena. E di nuovo ho percepito con estrema chiarezza il suo bisogno di comprensione, di sentirsi amata, nascosto fra le pieghe della sua ribellione e delle mille prodezze narrate.
Sono stato molto contento di questa lunga chiacchierata.

La terza cosa bella è la più semplice.
Sono due papaveri che una mano anonima (sì, ok, neanche troppo anonima) ha legato sul manubrio della mia moto.
Ho sorriso a lungo perché il papavero mi somiglia: come lui sono strutturalmente orgoglioso e solo.
Ho sorriso a lungo perché i papaveri erano due.


Nota: non ho l’elasticità di un tempo. Ma queste cose le dovevo scrivere perché non voglio dimenticarle. E allora pazienza se sono carenti di stile: questo luogo mi serve ancora a salvare ciò che inferno non è.
Per farlo durare.

mercoledì 23 maggio 2012

Colloqui sui generis

Ogni colloquio di lavoro mi sottopone almeno una domanda a cui non so rispondere.
E' la domanda a cui in seguito cerco di trovare una risposta standard, in modo da non farmi più trovare impreparato.

- Brown, perché lei è così serio?

Avrei voluto rispondere che era il risultato di otto ore di digiuno.
Ma avevo davvero troppa fame.

venerdì 16 marzo 2012

Il tempo e chi ci gira intorno

A corollario del post scorso...

Colui che stima il suo tempo troppo prezioso per poterlo perdere ad ascoltare gli altri, in realtà non avrà mai tempo né per Dio né per il prossimo; ne avrà soltanto per se stesso e per le proprie idee.

Dietrich Bonhoffer

Trentasett'anni di clandestinità

Si siede accanto a me con tutto il suo impermeabile giallo dai risvolti blu. Mi chiede scusa per avermi fatto spostare il bagaglio e i libri e la giacca. Le rispondo che non fa nulla. Lei insiste e io ribadisco che davvero non fa nulla.
È una signora anziana dai capelli bianchi e corti, con anelli vistosi che le ornano praticamente ogni grasso dito delle mani. Come tutte le signore anziane ha una gran voglia di parlare e non si cura troppo del fatto che io stia leggendo. Anzi, ad esser precisi non se ne cura affatto.
- Ma le pare che una persona sola come sono io, una che non ha nessuno, deve avere quella cosa lì, quell’affare (gesticola con le mani)… per riscuotere la pensione? Quel… come si dice, mi aiuti…
- Vorrei signora, ma non riesco a capire…
- Quella carta che si mette alle macchinette per i soldi…
- Il bancomat?
- Il bancomat! Ma le pare? Ho già due libretti e sono pure vuoti! E questi vorrebbero che… ma le pare… che poi una persona sola come me…

Ha un tono strano la signora. Perché a dispetto di quello che dice e del suo descriversi sola e indifesa, il suo tono non appare affatto quello di una donna sola e indifesa. È ferma, determinata, anche gentile. Soltanto che è una slavina di parole. Dopo avermi raccontato la sua pensione, le sue bollette, il suo vecchio lavoro da ricamatrice e lo schifo di mondo in cui viviamo, mi fa:
- Va bene. Non le dico altro. Lei stava leggendo, la lascio stare.
- Non si preoccupi, signora.

Ma rispondo senza convinzione. E soprattutto tuffandomi in una pagina a caso del libro prima che possa ricominciare con quel vorticoso flusso di coscienza. Lo ammetto: mi sento un po’ in colpa. In vita mia ho ascoltato ogni genere di persona. Ho ascoltato le storie di matti e di monaci, di ragazzi e amministratori, di vecchi e misantropi.
Oggi però ho sonno. E caldo. E una stanchezza tale da impedirmi di comprendere le sue invettive.

Ogni tanto tuttavia sorrido, perché con la coda dell’occhio la vedo spesso girarsi verso di me, nell’intento di intercettare una pausa nella mia lettura. Dopo una decina di minuti gliela faccio trovare: oggi va così.
- Senta, scusi. Sarebbe così cortese da leggermi questa lettera?

Mi porge una lettera dell’INPS.
- Io davvero non capisco cosa dice, se devo cambiare il libretto, se devo usare il computer…

Prendo la lettera e la leggo, maledicendo il funzionario che l’ha scritta. Come si fa a lasciare gli anziani in balia di “website”, “PIN code” e altri ammennicoli digitali? In Italia poi… Ad ogni modo le spiego che riceverà come sempre la sua pensione, solo che non le daranno più il foglio esplicativo.
- Grazie, grazie. Io non so come si faccia ad arrivare a pagare tutto. E poi da sola. Perché fino a che c’era lui, vede… era un’altra cosa. Pensava a tutto lui, ogni problema. Per trentasett’anni ho potuto fare riferimento a lui. Poi la vita me l’ha portato via…
- Accidenti, trentasette anni sono molti… immagino siano un bel bagaglio di ricordi…

Mi guarda bene negli occhi, attraverso le grandi lenti.
- Sono stata molto fortunata. Perché in quei trentasett’anni ci siamo amati molto. E non tutti hanno la fortuna di innamorarsi, di amare. Come ci si è amati noi.

Attenzione. Non è ciò che dice: è come lo dice. Non una lacrima, non un occhio umido. È serena, determinata, lucida nel parlare d’amore. Nelle sue parole l’amore diventa una cosa concreta, non poesia.
- Finché c’è stato, il mio compagno non m’ha fatto mancare nulla. Nulla.
- Che faceva nella vita?
- Ragioniere. Ma alla fine a me non è toccato nulla. Sa com’è: se non s’è sposati, non s’è neanche conviventi…
- Ma come? Tutto quel tempo senza vivere insieme?
- No no! Assolutamente no! Ci si amava, si stava insieme, ma poi ognuno a casa sua. Era un mammone, lui – lo dice con un tono quasi materno – ma a me stava bene così. I primi anni andavo anche in famiglia, da lui. Ma poi sua madre non mi voleva, e allora ho tagliato. E alla fine si sono presi tutto… non ha potuto lasciarmi nulla… l’ho assistito tutta la malattia e loro non hanno voluto rispettare neanche le sue legittime volontà. È stato difficile stargli vicino quand’era in ospedale, sa?

Mi guarda cercando una conferma che non tarda ad arrivare. Tuttavia sono frastornato dalla storia di questa donna, che decide di amare incondizionatamente un ragioniere incapace di emanciparsi dalla dittatura materna.
Immagino le discussioni, i tormenti e questo longevo amore clandestino durato trentasette anni.
Non so decidermi se provare ammirazione o pena. O entrambi.
So solo che la signora interrompe i miei pensieri perché deve scendere alla prossima. Le auguro buona fortuna per tutto e la tranquillizzo nuovamente riguardo la sua pensione.
Lei mi stringe la mano e mi augura di amare, un giorno, quanto ha amato lei.

E io sono davvero contento di aver messo via quel libro, una quarantina di chilometri fa.