venerdì 30 ottobre 2009

Paradise lost

C’è un posto su questo mondo che contiene una cosa a me cara. Si tratta di un posto molto piccolo e di una cosa molto preziosa. È un posto che vorrei descrivere con tutti i particolari possibili, per rendere l’idea. Eppure sarebbe una perdita di tempo, perché la sua bellezza va ben oltre il suo aspetto.
È un posto molto piccolo e direi anche molto isolato. Si tratta di un antico borgo perduto in mezzo ad un bosco di castagni, in Garfagnana: una manciata di case, per lo più mezze diroccate, che si radunano intorno ad un’antica chiesa, come a proteggerla. E la chiesa – di cui non ricordo neppure la dedica – è protetta da una grande casa canonica, che è il punto specifico del mio interesse.
Una grande casa che contiene la felicità più pura di quando ero bambino. Di quando tutta la famiglia di mia madre passava il mese d’agosto riempiendo quelle stradine deserte delle proprie risate e degli scherzi, delle litigate fra gli zii e dei ritmi di una curiosa comunità. Potrei passare intere ore ad elencare i miei ricordi. Ma neppure i ricordi saprebbero rendere l’idea che voglio trasmettere. La bellezza di quel luogo va oltre i ricordi di un ex bambino.

Oggi sono tornato in quel borgo, che ho trovato molto diverso dai miei ricordi. Intanto alcune case, quelle più grandi, sono state comprate e restaurate da facoltose famiglie inglesi che le utilizzano una settimana all’anno. La casa canonica dei miei ricordi sta per essere ripresa dalla diocesi che per quarant’anni ci aveva concesso l’utilizzo. Il tetto è quasi del tutto crollato, portandosi dietro l’intonaco di intere camere. Altre casette che pure ricordavo abitate d’estate ora assistono silenziose e decrepite allo scorrere del tempo.
E di tempo ne è passato parecchio di lì. Leggo le lapidi, osservo la chiesa, ascolto le grida dei bambini dei primi del novecento che uscivano dalla microscopica scuola. Il vento batte i grandi platani del piazzale e mi lascia immaginare lo sciabordio dei panni lavati dalle donne. Incisa sul marmo della chiesa è la memoria di tre abitanti che mai tornarono dalla Grande Guerra. Su molte pietre sono incise date del sei e del settecento. Dalla finestra di una cantina si intravede un’enorme botte, che ancora sanguina la pece usata per sigillarne gli assi. Se mi impegno riesco a sentire il profumo della vendemmia, mentre sto attento a non calpestare i funghi che mi tagliano la strada.

È una strana e potente vertigine ascoltare il vento che attraversa un intero borgo deserto. È il grido di una comunità che aveva abitato quelle strade con le proprie voci, con i propri desideri e aspirazioni. Intere generazioni di cui oggi non resta che un silenzioso ricordo, un’umanità di cui a malapena si tiene la memoria. Vi giuro che il silenzio di quel posto non è un silenzio normale. Ve lo giuro, credetemi se potete.

Girando e rigirando, con la testa confusa dalle voci che non parlano, mi imbatto in alcune stanze senza porte e finestre che danno direttamente sul panorama. Una moderna ristrutturazione abortita a quanto pare. Osservo il cemento che incoraggia le pietre e i preparativi per un intonaco mai realizzato. Poi mi fermo a fissare le montagne di fronte, che esplodono dei colori dell’autunno, e improvvisamente gli occhi scovano una scritta bianca. No, non è una scritta d’epoca. È lo stampatello acerbo di una ragazzina, si capisce. Un gessetto su pietra datato 25/5/2003. Sei anni fa una ragazzina è stata qui. Non era sola e ha scritto questo.

È STATO BELLISSIMO ANCHE OGGI!! IO E TE STRETTI STRETTI, NUDI E SOTTO LA PIOGGIA! SARA’ COSI’ PER SEMPRE…

Piccola, grazie per aver condotto proprio qui il tuo amore vivo, entusiasta e puro. E grazie per aver voluto lasciare una traccia del tuo passaggio, la testimonianza che l’amore ha ancora abitato quelle vecchie case annerite.

martedì 20 ottobre 2009

Della bellezza, di Dio

Scherziamo sulla Siberia e su alcune città dai nomi impronunciabili. Ride tanto, con tutto il volto. Persino i suoi capelli bianchi sembra che ridano. La moglie sorride anche lei. Con un sorriso profondo incastonato in un grande fazzolettone rosso a pois bianchi che le copre il capo. Sembra una matrioska a dieta.
È una visita per pochi quella che intraprendiamo. Solo i nostri passi e le nostre risate spezzano il silenzio cristallino del monastero d’ottobre. Mi spiegano che sono brasiliani, nonostante parlino un italiano e un francese limpidissimi. Io non so che impressione farmi di loro: fisicamente sembrerebbero due profughi dei primi del novecento, però quando gli racconto storie mi ascoltano e partecipano. Scherziamo molto: lui fa continue e feroci battute anticlericali.
Poi io e lui facciamo una scommessa: gli garantisco che il terzo chiostro è in assoluto il più bello. Lui mi sfotte. La bellezza è soggettiva, non dovrei dire certe cose, mi dice. Ma sta al gioco, ci stringiamo la mano e varchiamo la soglia.
Il suo sguardo ingordo percorre l’ambiente, attraversa le colonnine bianche di Carrara e si fissa sul campanile, stagliato contro uno degli azzurri più puri che il creato sappia regalare.
- Es muy bonito… bellissimo…
“Incredibile – penso – gli trema la voce”. Poi l’osservo e mi accorgo che sta piangendo.
- Lindo… Extraordinàrio…
Ancora piange e io vorrei solo smettere di parlare. Sento che le mie parole possono solo sporcare questo momento. Poi mi chiede di andare avanti e così faccio, procedendo fino alla fine con tutta la passione che ho. Quindi il commiato e la sua ultima stretta di mano.


- Grazie Ben. Mi hai aperto le porte di una straordinaria bellezza.
- Beh, non è certo merito mio! Il posto fa tutto da sé
- Non è vero. Lei conosce Trastevere?
- Certo
- Ha presente in che condizioni si trova?
- Beh, si.
- Ormai quasi nessuno crede nella bellezza. Ma chi uccide la bellezza uccide Dio.

E io vorrei solo abbracciare quel vecchio brasiliano. E piangere.