giovedì 4 novembre 2010

...

Sull’autobus, di sera, la stanchezza sale prima ancora dei passeggeri. Per questo quando i pendolari salgono hanno una percezione ovattata del mondo, con gli occhi perennemente incapaci di fissare un punto qualsiasi nello spazio.

Quando dopo la stanchezza e i pendolari sale a bordo la notizia, la sensazione di non essere nel mondo si fa più forte.



Un carabiniere ha sparato ai suoi figli e si è tolto la vita. Una bimba è già morta, l’altra ancora non si sa.

Un uomo, un padre, uno di noi, uno del paese, uno tranquillo.

Poteva essere il mio.



E vorrei non scendere più dal tempo sospeso di quel gigante d’acciaio che ci riporta al paese.

martedì 3 agosto 2010

Pinnacoli e asceti

Dice:

– Sai Ben, lo sai che io l’amo…
- Certo che lo so, l’avevo capito benone…
- Non mi prendi per matto, vero? Non è che pensi…
- Non penso niente, Frà. Penso che hai fatto quel che sentivi di fare e hai fatto bene…
- Sì si, questo sì. Perché alla fine mi son detto: “devo provarle tutte per riaverla… poi vada come vada, ma devo provarle tutte!”
- E alla fine sembra sia andata benone, no?
- Eh… speriamo…
- Ehi! Voglio sentirti ottimista stasera… eccheccazzo, ieri eri tutta una preoccupazione e un’ansia…
- No no, hai ragione… sto molto meglio oggi. Grazie Ben, mi hai dato ottimi consigli…

Great job, Benjamin Brown. Really a great job.
Vivere come vivo io ha questi straordinari lati positivi. È un po’ come vivere seduti sul pinnacolo di una cima montana. Tipo monaco shaolin o stilita o storie simili. Te ne stai solo, meditando in silenzio, e tutto vedi dall’alto e tutto appare chiaro, essenziale. I consigli vengon su facili, tanto mica sei tu a vivere problemi sentimentali, lavorativi o sociali… riesci ad approcciarti ad ogni cosa con distacco, chiedendoti di tanto in tanto se esisti o fai finta o non ne hai bisogno.

Non fosse che hai tutto il tempo un pinnacolo di roccia nel culo quando stai seduto, questa vita ascetica sarebbe ideale.

domenica 11 luglio 2010

Sono BB. Risolvo i problemi (tutti tranne i miei...)

- Ho un’idea per la vostra associazione!
- Ah sì piccole’? E che idea ti è venuta in mente?
- Un fumetto!
- Ah, perché tu sei bravo a disegnare?
- Si, la maestra me lo dice sempre. E poi mi piacerebbe fare un cartone animato!
- Pure! Ma un cartone animato è difficile…
- Lo so. Infatti mi hanno detto di chiedere aiuto a Benjamin Brown…
- Ah sì? Così ti hanno detto?
- Si.
- Ok, quando lo vedo glielo dico allora…
Lui se ne va soddisfatto, io rido sotto i baffi.

E il pomeriggio di luglio scorre placido sciogliendo gelati in silenzio.

mercoledì 30 giugno 2010

L'erba e la speranza

Ciao Ben. Scusa se non mi sono fatta sentire prima ma ho avuto dei problemi con i miei. Dopo una litigata furibonda ho fatto le valige, e adesso sono in cerca di un posto in cui stare. Ci sentiamo presto. Ti abbraccio.

L’sms mi arriva mentre pulisco l’oliveto dall’erba. È sera, intorno a me ho solo il tramonto, il profumo dell’erba appena tagliata e il rumore a scoppio del decespugliatore. Sarebbe una bella serata, in fondo.
L’sms mi arriva mentre trascorro le giornate affrontando me stesso, in un vortice di demoni che da tempo si contendono i miei pensieri e le mie frustrazioni. Ci sono giorni che vorrei smettere di esistere. No, non di morire, non capite male. Solo smettere di esistere. Diventare assenza, aria, polvere. Un modo come un altro per risolvere questa fase della vita fatta di una affollatissima e complicatissima bonaccia.
Si, ci sono giorni – la maggior parte – in cui mi sento proprio così: una barca a vela immobile nonostante sia vittima di correnti violente e contraddittorie. Credo che qualche romantico inglese ci abbia scritto anche un poema nell’ottocento. Un poema o qualcosa del genere. Io che non sono né romantico né inglese, non scriverò poemi.

Piuttosto un sms. Ho risposto alla mia amica con le mani callose e il sudore che mi colava dalla fronte. Avevo pezzi d’erba ovunque sparsi sul viso, le dita che faticavano ad esser precise.
Le ho scritto che stavo lavorando nei campi e che non bisogna mai perdere la speranza.
Che stavo tagliando l’erba fra gli ulivi e che non bisogna mai perdere la speranza.
Alle volte scrivo cose agli altri come se parlassi a me stesso.
E mi sento bene.

Perché in fondo una barca immobile per quanto in difficoltà può essere d’aiuto al naufrago incontrato in mezzo al mare.

sabato 26 giugno 2010

Vanno, vengono... a volte ritornano. E non si vede più il sole...

Un amico di Facebook dedica una canzone «A quelli che perdono tutto per orgoglio. A quelli che pur di aver ragione si perdono nella solitudine. A quelli che dicono di non aver bisogno di nulla e poi di nascosto piangono l'amarezza del loro cuore indurito. A quelli che rifiutano l'AMORE, credendo di poterne fare a meno. A quelli che amano da impazzire, ma non lo ammetteranno mai e vedranno da lontano, mentre gli anni si consumano, passare i loro sogni nelle braccia di altri.»


Taccio e mi guardo allo specchio.
Quel che vedo non mi piace affatto.

domenica 20 giugno 2010

Il pappagallo seriale

Dice - Anvedi che forza sto cagnetto… bello! Vai a prende’ la pallina, cori… ma guarda come core… e m’ha riporta pure!! Anvedi oh… che bravo cagnetto… qua bello, qua…
Lei lo osserva con un sorriso ingessato dietro i suoi occhiali scuri.
- Bello! Cori, arivacce a prende ‘sta pallina, còri…
La pallina corre avanti e indietro dalla panchina. È un ritmo che richiamerebbe qualcosa di zen se il tipo non fosse così rumorosamente interessato alla padrona del cagnetto.
- È una lei.
- Come?
- È una lei, è una cagnetta.
- Ah! Ma davero? Ahò, scusame piccole’… ‘na cagnetta sei… e come se chiama, ‘sta cagnetta?
- Gioia
- Ahò! Gioia! Come mi’ nipote! Anvedi che sei ahò…
Gioia continua a dimostrarsi complice del tipo. È giusto. Lui soddisfa il suo bisogno di correre ossessivamente e freneticamente dietro ad una pallina colorata. Sono almeno dieci minuti che palla e cane vanno avanti e indietro.
E io, nel mezzo del campo di battaglia, osservo la ragazza in trincea difendersi maldestramente dall’attacco garibaldino del tipo.
- Ma poi che begl’occhi che c’ha ‘sta cagnetta! So’ proprio belli!
La padrona sorride insieme alla sua scollatura.
- Ma che c’ha un problema però? Me pare che c’ha n’occhio più grande…
La padrona si fa più seria.
- Eh sì, ha un piccolo polinomio all’occhio destro.
- Eh, i polinomi so’ ‘na brutta bestia…
- Sì, ma niente di grave...
- E tu? E tu che dici? Ancora nun te sei stancata de core? E vai allora, va…
Riparte la palla con bestia annessa. Ritorna la bestia con palla annessa. Quindi il colpo di genio: senza indagare troppo sul dolo, la palla va a finire in un piccolo cespuglio. Gioia guaisce impotente dai suoi quindici centimetri di altezza. La ragazza è costretta ad intervenire e lo fa in grande stile: piegandosi a novanta gradi sul cespuglio e – di conseguenza - volgendo verso la nostra panchina l’insieme sgraziato delle sue grazie.
Lui si abbassa gli occhiali da sole e non si trattiene: ha l’aria di un bambino a cui stanno offrendo un chupa chups.
- La madò! Evvai va’, evviva la pallina de Gioia...
Storia insegna che certi errori si pagano.
Lei si rialza di scatto, lancia la pallina dalla parte opposta del parco e se ne va senza voltarsi, con passo decisamente irritato. Lui ha ancora la bocca semi aperta. Non credo se ne sia reso conto.
Ad ogni modo poco importa: dieci metri più avanti c’è un’altra panchina, un’altra ragazza e una nuova scusa per attaccare bottone. Il tipo si gira verso di me e il mio panino, mi sorride e se ne va.
Peccato.
Era più divertente il mio panino in mezzo al campo di battaglia.

lunedì 31 maggio 2010

Io non ho mani
















IO NON HO MANI
Io non ho mani
che mi accarezzino il volto,
(duro è l'ufficio
di queste parole
che non conoscono amori)
non so le dolcezze
dei vostri abbandoni:
ho dovuto essere
custode
della vostra solitudine:
sono
salvatore
di ore perdute.

David Maria Turoldo

giovedì 8 aprile 2010

Sura della Tiburtina

Se stai morendo di fame e sei a Roma non hai problemi.
Se stai morendo di fame, sei a Roma ed è passata la mezzanotte di martedì hai un problema.
Se, per giunta, sei lontano dal centro, allora il tuo problema è anche bello grosso.
Non potete immaginare quanto cinica sappia essere la Tiburtina in un martedì notte. Né quanto sia confrontante un’orrenda insegna accesa con scritto “Ciro - Pizza e kebab”.
Fermo la macchina come trovo, senza neppure ragionarci troppo. E poi corro. Corro sì, corro verso quell’insegna che mi appare l’ultima spiaggia, un’oasi in questo buio deserto d’asfalto.
Il tizio è sulla porta e fuma. Evidentemente mediorientale, altro che Ciro. Quando mi vede non si scompone: appoggia a terra la sigaretta, la spegne con la punta del piede e poi entra, sorridendomi. Sorride? Cos’ha da sorridere?
Entro, mi guardo intorno: sono circondato da colori sgargianti, pizze fredde e pilastri di kebab pigri. Lui dietro il bancone inizia a giustificarsi: ora non ha molti condimenti per il kebab, né pizze calde di forno e neppure fritti recenti. Mi spiega che stava per chiudere e gli rispondo che non fa nulla, che va bene così, che mi basta un pezzo di pizza per fermare la fame fino a casa.
Sorride il mediorientale. Sorride e mi porge un piatto con dei fritti e una salsa biancastra. Gli dico che in realtà volevo solo un pezzetto di pizza e lui mi risponde di provare, che offre lui l’antipasto. Assaggio quegli strani involtini: senza la salsa sanno di cartone pressato e hanno un nome impronunciabile che rinuncio a capire dopo la terza volta che me lo ripete. È gentile il mediorientale. Gli chiedo quel pezzo di pizza lì, sì, quello lì con le melanzane. Sono due euro e pago subito. Lui mi taglia un altro pezzo, dicendomi che offre lui e che stasera – accidenti – stasera lo trovo sguarnito perché stava chiudendo. Di nuovo gli rispondo che davvero – davvero – non fa niente.
Fra un morso e l’altro gli chiedo se è lui Ciro. Il mediorientale si mette a ridere e mi dice che lo è, in un certo senso. Si chiama Mohammad Shirish, ma tutti lo chiamano Ciro perché il suo nome è davvero troppo lungo e complicato (né d’altra parte ho la presunzione di averlo scritto bene). Mi dice che è turco, ma turco curdo. È turco, curdo e fa il secondo kebab più buono di tutta Roma. Così dice, e io gli credo. Perché non dovrei d’altra parte? È gentile.
Mi spiega che ha due negozi: uno lì e l’altro a Centocelle. È molto contento per come vanno gli affari, anche perché lui non crea disturbo a nessuno: non vende neppure alcolici per non avere grane. E va tutto bene perché “Dio lo vuole”. Lo ripete una, due, tre volte: “se Dio vorrà, domani…”. Già, Mohammad Shirish, se Dio vorrà.

Faccio per salutarlo e mi chiede se voglio portarmi via un po’ di pizza avanzata: buttarla sarebbe un vero peccato e lui comunque domani dovrà infornare la nuova. Lo ringrazio e lui mi manda via con due vassoi sani di pizza di ogni ordine e grado. Gli stringo la mano. Ben, mi chiamo Ben mio caro Mohammed Shirish.
Mi chiamo Ben e spero di tornare presto qui per chiamarti col tuo vero nome, assicurarmi che quel Dio a cui ti affidi faccia il suo dovere e mangiare il secondo miglior kebab di Roma.

Sempre che mi venga concesso.
Nel nome di Allah, clemente e misericordioso.

sabato 3 aprile 2010

La rosa e il cactus

La processione si snoda lungo i vicoli illuminati da un arancio spesso. Centinaia di metri fatti di persone che camminano pronunciando litanie mentre pensano ai fatti loro. Dietro di me c’è Giorgio, ma per rendervene conto dovete abbassare lo sguardo: avrà non più di cinque anni e un coerente argento vivo addosso. Alzando di nuovo lo sguardo è possibile immaginare sua nonna dietro di lui, che si dispera nel cercare di farlo stare calmo parlandogli. Un po’ come sperare di convertire un talebano regalandogli un santino di San Girolamo.
Davanti ai due, lo dicevo, ci sono io e il ricordo di mia nonna. La nonna del paese, quella che dentro quei vicoli ci aveva vissuto un’intera esistenza e che nutriva di fettuccine le mie domeniche bambine. Nonna Rosa aveva un nome tanto bello quanto inappropriato: un centinaio di chili in un metro e mezzo la rendevano inequivocabilmente più simile ad un cactus che ad una rosa. Ma non si può certo pensare che i miei bisnonni avrebbero potuto chiamarla cactus, d’altra parte.
Ad ogni modo la mole di mia nonna non è particolarmente significativa. E non lo è neppure la sua capacità intellettuale, visto che a malapena sapeva leggere e scrivere. La cosa importante, quando penso a mia nonna, è soltanto la sua capacità di essere materna, di saper mettere al primo posto i membri della famiglia, che avrebbe difeso anche fisicamente in caso di necessità. Mia nonna Rosa sapeva farmi sentire al sicuro, protetto, da ragazzino.
E ogni volta che me ne andavo, la domenica dopo pranzo, prendeva un pettine e una manciata d’acqua e mi faceva la leccata sulla zucca. Mentre lo faceva mi ripeteva sempre tre cose, che mi sembra di sentire come fosse qui ora:
- Ricordatello sempre: la gente è cattiva. Ma tu ha da esse' sempre sincero e non ha da tene’ paura. Manco der dimonio!
Dio solo sa quanto avrei bisogno di mia nonna in questo periodo di gente cattiva e di grandi paure.

martedì 16 marzo 2010

Orfeo e... ed Euridice?

L’accompagno a casa, di notte. Sono le 2 e mezza e sto uno straccio. Lei mi parla di coppia, io le rispondo di coppia. È bella, questo è innegabile. Nonostante il mio sonno lei è bella. Parliamo di coppia e di noi, che non lo siamo ma che lo potremmo essere. Che non lo siamo e forse lo vorremmo essere. Parliamo di coppia come se la cosa non ci riguardasse minimamente, non con distacco ma con una specie di serena accettazione.

È una lunga chiacchierata spassionata, forse de-passionalizzata, sulla coppia e sulla solitudine. Un dialogo bianco, spumoso, leggero. Qualche volta si ammicca, altre volte si sottintende. Ogni tanto mi sembra di parlare allo specchio e la sensazione non è piacevole. Ma forse sono solamente stanco.

Potremmo, vorremmo, sarebbe sicuramente molto giusto. Magari siamo fatti l’uno per l’altra, e questo spiegherebbe il motivo per cui ripetutamente mi scopro capace di sapere come andrebbe a finire. Mentre parla già vedo l’abito bianco e i figli e la messa la domenica e il volontariato e la gita fuori porta e i suoceri e… e cazzo Orfeo, corri!

Prima che i padroni dell’ade ci ripensino, corri ragazzo! Bravo Orfeo, corri da lei, corri con lei… hai sfidato mille pericoli, percorso tutti gli inferi, viaggiato nella terra dei morti… ora è nelle tue mani, a te spetta condurla verso la luce, verso la vita. Euridice ti ripagherà di ogni fatica, di ogni sacrificio, di ogni ferita: Euridice ti regalerà la vita che non hai avuto. Niente più rischi, niente avventure, niente incertezze: te e lei, lei e te. Poi i figli, tanti, a riempire di gioia la vostra dimora. Coraggio Orfeo, manca poco, coraggio. Basta che non ti giri Orfeo, basta che non la guardi. Non devi fare altro.

Cazzo hai fatto, Orfeo?

Cazzo hai fatto, hai ceduto? Come dici? Non riuscivi a resistere alla tentazione? Non riuscivi a resistere ancora pochi passi senza guardarla?

A me non mi ci prendi per il culo, dannato Orfeo, io ti ho capito bene. Ho capito il perché ti sei fermato con un mezzo sorriso e scusandoti ti sei voltato. L’ho vista bene l’espressione della tua bocca. Ho visto bene come hai lasciato la sua mano e come hai aspettato di vederla dissolversi al vento. La tua paura è la mia paura, la sensazione di iniziare qualcosa di cui si riesce a intravedere con precisione il progredire, se non la fine. Qualcosa tanto scontato da riuscire a cauterizzare ogni forma di passione.

No stupido Orfeo, Euridice non capirà.

Non capirà perché aspettare un altro eroe nel suo limbo.

Ma tu, stupido Orfeo, hai fatto la cosa migliore, l’unica possibile.

Per quelli come noi far parte di una coppia è una colpa senza possibilità di assoluzione.

lunedì 8 marzo 2010

Mea culpa

Esagerare. Con la rabbia, con il livore. Esagerare perché si è stanchi, sfiduciati. Dire sciocchezze senza rendersene conto. Arrivare fino ad essere un po’ cattivi, se non feroci in alcune espressioni. Scagliare parole come pietre, aver voglia di mordere o di esplodere. Avere sete di una giustizia che non appartiene a questa terra.
Fermarsi poi. Esausti, con l’anima ansimante, spossati dalla propria stessa rabbia. Stanchi come l’animale ferito che si lascia cadere su un fianco con la lingua di fuori.
E lì, soltanto lì, nel momento in cui il mondo è rivoltato a 90 gradi, accorgersi di quel che non si riusciva a vedere prima. Nel silenzio accorgersi di aver proiettato su di un unico punto tutta la rabbia accumulata nel tempo, a prescindere da chi ne fosse causa. Accorgersi di essersi accaniti su un capro espiatorio perché esso costituiva finalmente un nemico visibile e concreto.
Da uomo a bestia il passo è breve. Da bestia a uomo è più lento e fa più male. Ci si rialza piano, non servono più tutte e quattro le zampe a terra. Ne bastano due per tornare a vedere le cose da un punto di vista più alto. Ci si guarda intorno e ci si accorge delle reali dimensioni delle cose. Se si ha coraggio, si può dirigere lo sguardo verso se stessi. E accorgersi di quanto fango, meschinità e odio ci siamo imbrattati.

È difficile riconoscere e accettare di essersi sporcati.
Difficile come ammettere di essere,
in fondo,
soltanto
un
uomo.

domenica 28 febbraio 2010

Dannazione

Io non appartengo a niente, figuriamoci all'amore
il mio amore è solamente quello che ti do.
A volte cresce il mio bisogno d'inventare
ma come faccio a tirar fuori quello che non ho?

Un'emozione non so che cosa sia
ma ho imparato che va buttata via.
Dolce prudenza, ti prego, resta ancora con me
da tanto tempo non soffro grazie a te.


(...)

"Un'emozione", Gaber

Dannato bisogno di inventare, dannata assenza, dannata aridità, dannata disillusione, dannata prudenza, dannata pulizia del sentire, dannato romanticismo, dannato contatto fisico, dannate effusioni, dannata stima, dannata volontà, dannato torpore, dannato paese, dannata città, dannata sofferenza, dannati fidanzati, dannati baci, dannata cavalleria, dannata insicurezza, dannato cuore, dannata confusione, dannata sicurezza, dannata interpretazione, dannata paura, dannata solitudine, dannata battaglia dei sessi, dannato scorrere di giorni, dannato dannare quel che dovrebbe esser normale...

domenica 14 febbraio 2010

Piccola favola di San Valentino

All’inizio sembra simpatico. Un buffo vecchietto ciociaro, con il riportino e le orecchie a sventola, che porta in visita al monastero due attempate signore polacche. Le quali, per motivi che ignoro, comprendono più il suo chiassoso dialetto che il mio grigio italiano. Almeno sono molto cordiali, le due signore, e molto sobrie. Lui no. Entra di prepotenza sulla quarta parola di ogni mio discorso per dimostrare conoscenze che non ha, ma che io fingo di condividere. Ho dovuto nominarlo vice Cicerone per farlo stare buono. La sua mano sinistra è continuamente impegnata a scattare fotografie, puntualmente commentate da ampie espressioni della faccia. La sua mano destra è invece meno enfatica, forse perché è di plastica. È una visita guidata estremamente lunga.
Riesco a condurli all’uscita dopo una ventina di minuti e le signore mi salutano spiegandomi qualcosa sulla prima volta che hanno visto San Pietro. Dall’espressione non capisco se si riferiscono alla basilica o al santo in persona. Il vecchietto invece si ferma davanti a me e ride.

- Giuvannotto, ma che sei ‘namurato? che la tieni la moglie?
- No, San Giuseppe non me la vuole far incontrare…
Bisogna sempre stare al gioco.
- Ah, San Giuseppe nun cullabbora?
Ride.
- Vedi invece io? Due ce ne ho di mogli! È una bellezza figlu meu… una bellezza! Me porto appresso du’ signore, manco una!
- Ecco, ora ho capito perché a me non m’è toccata…
Ridono loro, ride lui, rido io. Poi si fa serio e mi da la mano, la sinistra sempre.
- Ma io tengo ottantuno anni…
E ricomincia a ridere. Tutti e tre se ne vanno augurandomi un buon avvenire e una buona moglie. Io chiudo la porta, mi giro, guardo San Valentino e gli punto il mio pugno chiuso.
- Vescovo, semmai dovessi arrivare in paradiso cerca di nasconderti bene…
San Valentino allarga le braccia.
Stupida festa degli innamorati.

mercoledì 20 gennaio 2010

La negra

La negra si sedette sugli scalini di granito del sagrato, vicino a lui.
- Allora? Com’è andata?
Lui le porse la corona d’alloro che teneva in mano.
- Meglio non poteva andare, Madame…
- Hai visto? – disse con la sua voce grassa – E tu che ti preoccupavi…
- Eddai Madame, lo sai che son sempre situazioni che… umpf… non ci arrivi mai abbastanza sicuro…
- Perché sei uno sciocco, Ragazzo... lo sei sempre stato! Tu ti convinci di bastare a te stesso… quante volte te lo devo dire, eh? Ormai sei un ometto… impara a fidarti e affidarti!
La negra scoppiò in una risata che sembrava nascere dai colori della sua tunica. Sorrise e gli mise un braccio dietro le spalle. Il ragazzo elegante ricambiò il sorriso.
- La fai sempre facile tu…
- Non è che la faccio, stupido Ragazzo! È facile!
- Madame, io ci ho provo… ma poi lo sai, umpf... quante volte ne avremo parlato in questi dieci anni?
Rise di nuovo, la negra. Poi il suo sguardo si fece più calmo, terrestre.
- Tutte le volte che sei venuto da queste parti, Piccolo! Mi ricordo le prime volte che passavi, tu e tutti quei tuoi timori di petit homme… mi facevi proprio ridere… ma che dico? Guardati! Vestito nuovo, cravatta… mi fai ancora morire dalle risate! - Rise ancora e gli diede una spinta. Lui brontolò qualcosa di incomprensibile – Sembri proprio un ometto, Ragazzo! E adesso? Hai deciso che fare?
- Non so Madame, non so ancora. Camminerò. Credo.
- Non male come idea. Te la cavi piuttosto bene a camminare Benny. E poi si guadagna un sacco di soldi a camminare!
I denti scintillanti lampeggiavano fra quelle labbra sproporzionate.
- Sfotti sfotti… vedi che la fai sempre facile te?
La negra allora sorrise con compostezza. Abbassò il capo, prese il ragazzo per la cravatta e lo guardò negli occhi con tutto il fuoco che aveva nello sguardo.
- Stammi a sentire Benjamin Brown. Prova a fare lo scienziato, il calciatore, l’avvocato o lo sciamano. Non me ne frega niente, scegli tu. E poi resta a casa tua. Oppure gira il mondo. O ancora: vattene a fare l’eremita su una montagna. E sposati. Fa’ dei figli che – per l’amor di Dio – somiglino a tua moglie. Oppure resta solo a coltivare le tue piccole cosucce... sì dai, tutte quelle stupidaggini colorate che ti piacciono tanto. O magari fatti monaco, o vescovo… o Papa magari! Anche se non riesco ad immaginarti vestito di bianco, mozzarellino… Fa’ quello che vuoi, davvero. Ma, per Dio, continua a camminare. E ricorda che se un giorno, per caso, mi accorgessi che hai smesso di farlo… Benjamin Brown, ti giuro solennemente che vengo a prenderti a calci nel culo! Anche dovessi venire a cercarti in Vaticano!
Quindi lasciò la presa e scoppiò in una risata grassa con tutto il corpo. Poi si alzarono in piedi.
- E tu? Tu che fai Madame?
- Che domande stupide ti metti a fare? Allora è vero che danno lauree a chiunque ormai! Dovrei provare a iscrivermi pure io… magari ne scappa una pure per me! – disse ridendo – Io torno a casa mia, sul mio altare. Sei tu quello che deve camminare… se avrai bisogno, Ragazzo, sai dove trovarmi.
Lui sorrise e le porse la mano.
- Grazie di tutto Madame…
Lei sgranò occhi e labbra, diede uno schiaffo a quella mano pallida e lo abbracciò, facendogli mancare il fiato.
- Va’ Piccolo. Che il cammino ti sia casa.
Lui verso la strada e la metropoli, lei verso la navata e la chiesa.
S’incamminarono entrambi di un passo deciso, senza voltarsi.
Almeno lui.