Sura della Tiburtina
Se stai morendo di fame e sei a Roma non hai problemi.
Se stai morendo di fame, sei a Roma ed è passata la mezzanotte di martedì hai un problema.
Se, per giunta, sei lontano dal centro, allora il tuo problema è anche bello grosso.
Non potete immaginare quanto cinica sappia essere la Tiburtina in un martedì notte. Né quanto sia confrontante un’orrenda insegna accesa con scritto “Ciro - Pizza e kebab”.
Fermo la macchina come trovo, senza neppure ragionarci troppo. E poi corro. Corro sì, corro verso quell’insegna che mi appare l’ultima spiaggia, un’oasi in questo buio deserto d’asfalto.
Il tizio è sulla porta e fuma. Evidentemente mediorientale, altro che Ciro. Quando mi vede non si scompone: appoggia a terra la sigaretta, la spegne con la punta del piede e poi entra, sorridendomi. Sorride? Cos’ha da sorridere?
Entro, mi guardo intorno: sono circondato da colori sgargianti, pizze fredde e pilastri di kebab pigri. Lui dietro il bancone inizia a giustificarsi: ora non ha molti condimenti per il kebab, né pizze calde di forno e neppure fritti recenti. Mi spiega che stava per chiudere e gli rispondo che non fa nulla, che va bene così, che mi basta un pezzo di pizza per fermare la fame fino a casa.
Sorride il mediorientale. Sorride e mi porge un piatto con dei fritti e una salsa biancastra. Gli dico che in realtà volevo solo un pezzetto di pizza e lui mi risponde di provare, che offre lui l’antipasto. Assaggio quegli strani involtini: senza la salsa sanno di cartone pressato e hanno un nome impronunciabile che rinuncio a capire dopo la terza volta che me lo ripete. È gentile il mediorientale. Gli chiedo quel pezzo di pizza lì, sì, quello lì con le melanzane. Sono due euro e pago subito. Lui mi taglia un altro pezzo, dicendomi che offre lui e che stasera – accidenti – stasera lo trovo sguarnito perché stava chiudendo. Di nuovo gli rispondo che davvero – davvero – non fa niente.
Fra un morso e l’altro gli chiedo se è lui Ciro. Il mediorientale si mette a ridere e mi dice che lo è, in un certo senso. Si chiama Mohammad Shirish, ma tutti lo chiamano Ciro perché il suo nome è davvero troppo lungo e complicato (né d’altra parte ho la presunzione di averlo scritto bene). Mi dice che è turco, ma turco curdo. È turco, curdo e fa il secondo kebab più buono di tutta Roma. Così dice, e io gli credo. Perché non dovrei d’altra parte? È gentile.
Mi spiega che ha due negozi: uno lì e l’altro a Centocelle. È molto contento per come vanno gli affari, anche perché lui non crea disturbo a nessuno: non vende neppure alcolici per non avere grane. E va tutto bene perché “Dio lo vuole”. Lo ripete una, due, tre volte: “se Dio vorrà, domani…”. Già, Mohammad Shirish, se Dio vorrà.
Faccio per salutarlo e mi chiede se voglio portarmi via un po’ di pizza avanzata: buttarla sarebbe un vero peccato e lui comunque domani dovrà infornare la nuova. Lo ringrazio e lui mi manda via con due vassoi sani di pizza di ogni ordine e grado. Gli stringo la mano. Ben, mi chiamo Ben mio caro Mohammed Shirish.
Mi chiamo Ben e spero di tornare presto qui per chiamarti col tuo vero nome, assicurarmi che quel Dio a cui ti affidi faccia il suo dovere e mangiare il secondo miglior kebab di Roma.
Sempre che mi venga concesso.
Nel nome di Allah, clemente e misericordioso.