La rosa e il cactus
La processione si snoda lungo i vicoli illuminati da un arancio spesso. Centinaia di metri fatti di persone che camminano pronunciando litanie mentre pensano ai fatti loro. Dietro di me c’è Giorgio, ma per rendervene conto dovete abbassare lo sguardo: avrà non più di cinque anni e un coerente argento vivo addosso. Alzando di nuovo lo sguardo è possibile immaginare sua nonna dietro di lui, che si dispera nel cercare di farlo stare calmo parlandogli. Un po’ come sperare di convertire un talebano regalandogli un santino di San Girolamo.
Davanti ai due, lo dicevo, ci sono io e il ricordo di mia nonna. La nonna del paese, quella che dentro quei vicoli ci aveva vissuto un’intera esistenza e che nutriva di fettuccine le mie domeniche bambine. Nonna Rosa aveva un nome tanto bello quanto inappropriato: un centinaio di chili in un metro e mezzo la rendevano inequivocabilmente più simile ad un cactus che ad una rosa. Ma non si può certo pensare che i miei bisnonni avrebbero potuto chiamarla cactus, d’altra parte.
Ad ogni modo la mole di mia nonna non è particolarmente significativa. E non lo è neppure la sua capacità intellettuale, visto che a malapena sapeva leggere e scrivere. La cosa importante, quando penso a mia nonna, è soltanto la sua capacità di essere materna, di saper mettere al primo posto i membri della famiglia, che avrebbe difeso anche fisicamente in caso di necessità. Mia nonna Rosa sapeva farmi sentire al sicuro, protetto, da ragazzino.
E ogni volta che me ne andavo, la domenica dopo pranzo, prendeva un pettine e una manciata d’acqua e mi faceva la leccata sulla zucca. Mentre lo faceva mi ripeteva sempre tre cose, che mi sembra di sentire come fosse qui ora:
- Ricordatello sempre: la gente è cattiva. Ma tu ha da esse' sempre sincero e non ha da tene’ paura. Manco der dimonio!
Dio solo sa quanto avrei bisogno di mia nonna in questo periodo di gente cattiva e di grandi paure.
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