mercoledì 30 giugno 2010

L'erba e la speranza

Ciao Ben. Scusa se non mi sono fatta sentire prima ma ho avuto dei problemi con i miei. Dopo una litigata furibonda ho fatto le valige, e adesso sono in cerca di un posto in cui stare. Ci sentiamo presto. Ti abbraccio.

L’sms mi arriva mentre pulisco l’oliveto dall’erba. È sera, intorno a me ho solo il tramonto, il profumo dell’erba appena tagliata e il rumore a scoppio del decespugliatore. Sarebbe una bella serata, in fondo.
L’sms mi arriva mentre trascorro le giornate affrontando me stesso, in un vortice di demoni che da tempo si contendono i miei pensieri e le mie frustrazioni. Ci sono giorni che vorrei smettere di esistere. No, non di morire, non capite male. Solo smettere di esistere. Diventare assenza, aria, polvere. Un modo come un altro per risolvere questa fase della vita fatta di una affollatissima e complicatissima bonaccia.
Si, ci sono giorni – la maggior parte – in cui mi sento proprio così: una barca a vela immobile nonostante sia vittima di correnti violente e contraddittorie. Credo che qualche romantico inglese ci abbia scritto anche un poema nell’ottocento. Un poema o qualcosa del genere. Io che non sono né romantico né inglese, non scriverò poemi.

Piuttosto un sms. Ho risposto alla mia amica con le mani callose e il sudore che mi colava dalla fronte. Avevo pezzi d’erba ovunque sparsi sul viso, le dita che faticavano ad esser precise.
Le ho scritto che stavo lavorando nei campi e che non bisogna mai perdere la speranza.
Che stavo tagliando l’erba fra gli ulivi e che non bisogna mai perdere la speranza.
Alle volte scrivo cose agli altri come se parlassi a me stesso.
E mi sento bene.

Perché in fondo una barca immobile per quanto in difficoltà può essere d’aiuto al naufrago incontrato in mezzo al mare.

sabato 26 giugno 2010

Vanno, vengono... a volte ritornano. E non si vede più il sole...

Un amico di Facebook dedica una canzone «A quelli che perdono tutto per orgoglio. A quelli che pur di aver ragione si perdono nella solitudine. A quelli che dicono di non aver bisogno di nulla e poi di nascosto piangono l'amarezza del loro cuore indurito. A quelli che rifiutano l'AMORE, credendo di poterne fare a meno. A quelli che amano da impazzire, ma non lo ammetteranno mai e vedranno da lontano, mentre gli anni si consumano, passare i loro sogni nelle braccia di altri.»


Taccio e mi guardo allo specchio.
Quel che vedo non mi piace affatto.

domenica 20 giugno 2010

Il pappagallo seriale

Dice - Anvedi che forza sto cagnetto… bello! Vai a prende’ la pallina, cori… ma guarda come core… e m’ha riporta pure!! Anvedi oh… che bravo cagnetto… qua bello, qua…
Lei lo osserva con un sorriso ingessato dietro i suoi occhiali scuri.
- Bello! Cori, arivacce a prende ‘sta pallina, còri…
La pallina corre avanti e indietro dalla panchina. È un ritmo che richiamerebbe qualcosa di zen se il tipo non fosse così rumorosamente interessato alla padrona del cagnetto.
- È una lei.
- Come?
- È una lei, è una cagnetta.
- Ah! Ma davero? Ahò, scusame piccole’… ‘na cagnetta sei… e come se chiama, ‘sta cagnetta?
- Gioia
- Ahò! Gioia! Come mi’ nipote! Anvedi che sei ahò…
Gioia continua a dimostrarsi complice del tipo. È giusto. Lui soddisfa il suo bisogno di correre ossessivamente e freneticamente dietro ad una pallina colorata. Sono almeno dieci minuti che palla e cane vanno avanti e indietro.
E io, nel mezzo del campo di battaglia, osservo la ragazza in trincea difendersi maldestramente dall’attacco garibaldino del tipo.
- Ma poi che begl’occhi che c’ha ‘sta cagnetta! So’ proprio belli!
La padrona sorride insieme alla sua scollatura.
- Ma che c’ha un problema però? Me pare che c’ha n’occhio più grande…
La padrona si fa più seria.
- Eh sì, ha un piccolo polinomio all’occhio destro.
- Eh, i polinomi so’ ‘na brutta bestia…
- Sì, ma niente di grave...
- E tu? E tu che dici? Ancora nun te sei stancata de core? E vai allora, va…
Riparte la palla con bestia annessa. Ritorna la bestia con palla annessa. Quindi il colpo di genio: senza indagare troppo sul dolo, la palla va a finire in un piccolo cespuglio. Gioia guaisce impotente dai suoi quindici centimetri di altezza. La ragazza è costretta ad intervenire e lo fa in grande stile: piegandosi a novanta gradi sul cespuglio e – di conseguenza - volgendo verso la nostra panchina l’insieme sgraziato delle sue grazie.
Lui si abbassa gli occhiali da sole e non si trattiene: ha l’aria di un bambino a cui stanno offrendo un chupa chups.
- La madò! Evvai va’, evviva la pallina de Gioia...
Storia insegna che certi errori si pagano.
Lei si rialza di scatto, lancia la pallina dalla parte opposta del parco e se ne va senza voltarsi, con passo decisamente irritato. Lui ha ancora la bocca semi aperta. Non credo se ne sia reso conto.
Ad ogni modo poco importa: dieci metri più avanti c’è un’altra panchina, un’altra ragazza e una nuova scusa per attaccare bottone. Il tipo si gira verso di me e il mio panino, mi sorride e se ne va.
Peccato.
Era più divertente il mio panino in mezzo al campo di battaglia.