Humus
- Pronto? Ben?
- Si, dimmi tutto Samuele…
- Senti… Ho un problema…
Non è curioso che l’80% delle telefonate che ricevo cominci alla stessa identica maniera?
- Spara
- Avrei da impaginare una cosa ma sto già sommerso di lavoro… non è che potresti pensarci tu?
- Di cosa parliamo?
- Un libro.
Mi piace Samuele. Parla poco ma con precisione. E non dice mai più del necessario.
- Ma io non so impaginare un libro… al massimo ho fatto calendari…
- Beh, non penso lo troverai difficile…
- Vabbè dai, passo più tardi in tipografia allora?
- Si, penso che sia il caso. Anche perché il cliente vorrebbe il libro finito fra una settimana.
- Porca Eva…
Perché vanno sempre tutti di fretta? Che cazzo c’hanno da fare che corrono sempre tutti? E soprattutto: perché mi tocca sempre adeguarmi alla dannatissima fretta degli altri?
Ho davanti il materiale. 467 foto d’epoca digitalizzate. Mi rendo conto con una certa velocità che impaginare un libro fotografico è un’impresa piuttosto alienante, che diventa in poco tempo una questione meramente meccanica.
Copia, correggi, incolla.
Didascalia.
Copia, correggi, incolla.
Si compone pagina dopo pagina questo strano mosaico. Si compone davanti ai miei occhi questa memoria visiva di un paese, Riverbano, a pochi chilometri da qui. Si compone attraverso i ritratti di vecchie contadine degli anni venti e borghesi cravatte dei golden sixties, adunate di incoscienti figli della lupa e matrimoni giocosi. Si susseguono infiniti bambini, donne e uomini che hanno abitato e dato vita ad un fazzoletto di terra più piccolo di un quartiere romano. Sono tantissime le coppie di occhi che hanno visto morire i propri genitori e crescere i propri figli e nipoti.
Tanto fa l’uomo che alla fine sparisce.
Mi confonde.
Tutto questo andare, questo essere una molecola dell’humus di una comunità mi atterrisce e mi confonde. Eppure è vita. E tu non puoi farci nulla. Perché già nel momento stesso in cui scrivo queste righe sono parte di quell’humus, ingenuamente e presuntuosamente ossessionato dal volerne essere esentato.
Come ha fatto tanta gente a vivere un’intera esistenza senza lasciare altra traccia del suo passaggio che non fosse quella custodita dal dna della propria stirpe? E soprattutto: come faceva questa gente, queste intere generazioni di viandanti ormai passati, a vivere serena? E ad essere persino felice, a giudicare da alcune foto?
Ci sono giovani che ammiccano dietro una sagoma di cartone che riproduce una spider stilizzata. Militari che mi sorridono dalla Grecia del 1943. Ci sono donne che ridono in mezzo ad un campo, con i falcetti in bella mostra. E ancora pretini di campagna che conducono orgogliosamente il gregge sorridente verso un pellegrinaggio.
Da quand’ero dodicenne su una parete della mia cameretta appesi un orrendo poster nero con una scritta in stampatello bianca.
Solo in questi giorni mi è tornata in mente, sotto una nuova luce.
E il suo senso non mi dà tregua.
2 commenti:
"Il pericolo maggiore che possa temere l'umanità non è una catastrofe che venga dal di fuori, non è né la fame né la peste, è invece quella malattia spirituale. la più terribile, perché il più direttamente umano dei flagelli, che è la perdita del gusto di vivere".
Teilhard de Chardin
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