sabato 13 dicembre 2008

Il Gentiluomo

- Benjamin ho una cosa per te!
- Era ora…
- Niente soldi, mi spiace… è una lettera.
- Una lettera?
- È arrivata oggi al monastero. L’ha presa don Arnaldo. C’è il tuo nome scritto sopra... anche se…
- Al Signor Benjamin Brown, custode del monast… “CUSTODE”?!? Ma chi è che mi scrive qui??
- Eh eh… con don Arnaldo abbiamo riso mezz’ora… ma cosa gli racconterai alle ragazze a cui fai la guida, eh?

Una ragazza? Non c’avevo pensato. Magari è una ragazza davvero… ma no… mi pare strano. Non è calligrafia da ragazza. E poi quando mai una ragazza scriverebbe “Signor Benjamin Brown”? Certo che se lo fosse… una lettera… sono mesi che non ricevo una lettera di carta e inchiostro…

Ho aperto la busta con un po’ di avida curiosità. Insieme ad un biglietto ci sono due foto. Architetture sembra.


“Gentile Signor Benjamin”
Come volevasi dimostrare non è una ragazza.
“Gentile Signor Benjamin,
nel ringraziarLa per la sua cortese e preparata esposizione al monastero, luogo denso di tale bellezza da avermi profondamente colpito, mi premeva inviarLe foto del chiostro di cui le avevo parlato e al quale si era dimostrato interessato.
In quanto alla Sua intuizione circa la datazione del chiostro, le confermo che ha intuito esattamente, essendo essa successiva a quella posseduta dalla struttura in cui Lei opera.
La mia età non mi consente di recarmi nuovamente in loco per nuove valutazioni, quindi non posso che auspicare una Sua visita all’abbazia di Pietraliquida, che è luogo ameno e saturo di arte.

Nel ringraziarla nuovamente,
le auguro buone feste.

Professor Tancredi Ardemanni”

Colbacco marrone scuro, passo zoppicante da poliomelite, occhiali tartarugati e dolcevita bordeaux. Gentile. Si professore, ora ricordo la nostra chiacchierata.

- Allora Ben... fanciulla?
- Un gentiluomo don Virgilio. Un gentiluomo.

lunedì 1 dicembre 2008

E noi dall'altra parte del cancello

Vivere. Non riesco a vivere. Nessuno mi capisce e poi cosa pretendo? Questi sono discorsi da adolescente. E sicuramente nessuno è soddisfatto del mio lavoro. Mi fanno la parte ma non sono contenti. E poi lavoro troppo. Lavoro troppo e non riesco a dare spazio alle amicizie. I miei amici. Lo so, li sto perdendo, li trascuro. Un giorno non mi chiameranno più. E poi questo periodo è un vico…
- Ben!
- Si!
- Ci sarebbe da fare un gruppo un po’ particolare… e tu sei sempre il più…
- Taglia corto: chi è stavolta? Ciechi? Sordi? Rotaryani?
- È una specie di… beh… sarebbero… malati di mente.
- Malati di mente?
- Malati di mente.
- E che gli dico ai malati di mente?
- Quello che ti pare. L’importante è che li guidi una persona calma. E tu sei il più…
- Si vabbè, ho capito và…

E i matti arrivano in uno strano silenzio. Matti silenziosi. Strano. Arrivano alla spicciolata e non capisco chi di loro sia accompagnatore e chi accompagnato. Devono avere dei disturbi piuttosto contenuti.
Uno mi viene davanti e si ferma a un palmo da me.
Io sorrido.
- C’è stato qui Onorio III?
- No.
- Io studio tanto i papi. Mi piacciono tanto. È Onorio III è il più grande… conosce Onorio III?
- No.
- È il più grande Onorio III.
- Non lo metto in dubbio.
- Perché a me piace la storia dei papi. Ma come Onorio III non c’è nessuno.

Una assistente mi cava di impaccio e iniziamo il giro. Domandano i matti. Domandano sempre, domandano tutto. Osservano, guardano. Sembrano continuamente spaesati e curiosi. Sembrano venti bambini di cinquanta anni.
Ma soprattutto sembrano assolutamente normali. Qualcuno parla da solo. Uno non vuole mai togliersi il cappuccio, una non vuole più alzarsi dalla sedia. Eppure devo sforzarmi per scorgere i loro disturbi.
Una piange.
Piange.

Senza un apparente motivo.
Immersi in uno splendido pomeriggio autunnale.
Lei piange.

Eccolo il loro disturbo, ecco ciò che li rende diversi da me.
Questi matti dimostrano una libertà che io rifiuto giorno dopo giorno, che mi ostino a non accettare.
La libertà di piangere, la libertà di chiedere, la libertà di essere fragili, la libertà di non vergognarsi, la libertà di sbagliare.
Fino a quella paradossale, contraddittoria, illogica libertà di dipendere da qualcuno.

Dovrei smettere di far finta di essere sano.

martedì 25 novembre 2008

Dall'altra parte della sera - Capossela

Dall’altra parte della terra
una luce trema nella sera
lei gioca con l’anello al dito
guarda lontano oltre nel vetro
la sedia dondola da sola
fuori il rumore di un motore
muore piano

Da questa parte della sera
lui s’incammina oltre la strada
la notte prende il posto al giorno
niente è restato ancora intorno
i muri parlano da soli
non si rifa’ la vita non più uguale
ed io…

Non ho più avuto amore
non ho più avuto amore
vivo solo per te

Da qualche parte della sera
l’ombra si prende gia’ le ore
lui cade e lancia tra i binari
una bottiglia in faccia al cielo
il treno passa nel vapore
e non lascia dietro che parole..

Dall’altra parte della sera
il fieno cresce sempre al sole
nessuno più ricorda come
andò la via di quell’errore
il prete è sempre l’aviatore
una bugia li tiene insieme

Dall’altra parte della terra
una pioggia fine e una sirena
entra dal tetto e lei da sola
si stringe al petto un orso viola
dorme e non c’è più dolore
i piccoli li guarda il cielo ora dire..

Non ho più avuto amore
non ho più avuto amore
vivo solo per te
Non ho più avuto amore
non ho più avuto amore
vivo solo per te

martedì 14 ottobre 2008

A tutto tondo...

- Signor Brown buonasera, la chiamo dalla SPR Editrice. Si ricorda di noi? Sì, bene, volevamo avvisarla che la SPR ha prodotto una nuova opera sul ruolo della…
- Ma veramente io…
- … un’opera veramente unica, e lei è stato selezionato fra…
- No, ascolti un momento…
- Quando la troviamo in casa per poterle mostrare la nostra proposta editoriale?
- Senta. Mi ricordo di voi ma lei si ricorda che io non posso permettermi i vostri prodotti?
- Signor Brown, siamo perfettamente a conoscenza della sua condizione economica.
Mio Dio.

Il tipo è maschio. Dannazione. Elegante, pettinato, azzimato. Sta sotto il diluvio ma sembra che non si bagni. Se fossi la pioggia io, uno così, non potrei mai bagnarlo.
- Salve Signor Brown, sono Giorgio. Della SPR Editrice.
- Lo so. Ma basta co’ ‘sto “Signor Brown”. Ben, mi chiami Ben.


Ride. Ma quanti denti ha questo ragazzo? Entra in sala. Complimenti per le sorelle, signora non si preoccupi per il disordine, oh ma chi è che suona?, davvero questo lo ha fatto lei?, anche io provengo da una famiglia numerosa, no ma non si preoccupi, non prendo niente, posso sedere? Grazie grazie grazie.
Cazzo quanto è pulito questo uomo. Sembra incapace persino di produrre la propria ombra, tanta è la luce che emana.

- Veniamo a noi Benjamin

Non ce la fa proprio a chiamarmi Ben.

- Veniamo a noi Giorgio…
- Io vorrei proporle questo testo. Pensi che ci è stato commissionato dal Vaticano e tratta il tema della donna nell’arte dalla Madonna ai giorni nostri. Il libro ha una tiratura di 900 copie ed è stampato in carta appositamente preparata con una miscela di cotone di chiffon e recante il logo pontificio. La rilegatura è in filo di seta, mentre la copertina è in pelle di cinghiale e incorpora un’opera d’arte del maestro De Franti in lamina d’oro realizzata secondo i dettami dell’arte rinascimentale. Vede, lei deve capire. La SPR Editrice crede fortemente nel libro come opera d’arte, come era alle sue origini. Crede nel libro come un’opera a tutto tondo che non si limita al contenuto testuale. Pensi che abbiamo l’esclusiva delle opere del Campidoglio, del Vaticano, dell’Unesco… insomma, noi produciamo opere esclusive. Le faccio vedere: questa foto mostra il Papa che una volta eletto giura su una delle nostre Bibbie. Ecco, oggi sono qui per offrirle l’opportunità…
- Quanto?
- … ecco sì, dicevo l’opportunità…
- Senti Giorgio, tagliamo corto. Io non potrò mai permettermi una cosa del genere.
- Ma guardi che c’è la possibilità di pagare in piccole rate mensili…
- Di?
- 150 euro al mese, per 24 rate.

Lo invidio. Come può restare serio?

- Fammi capire Giorgio. Stiamo parlando di un libro da più di 3mila euro?
- Si ma lei deve capire Benjamin…
- Mi chiami Signor Brown
- … che si tratta di un’opera a tutto tondo, un’opera d’arte totale!
- Lei ha una vaga idea di quanti libri di arte potrei comprare con 3mila euro?

Alla parola Taschen tace, ad Art Dossier smette di sorridere. Alla parola Giunti quasi si mette a piangere. Un po’ mi dispiace, è un ragazzo davvero molto educato.

- Ma guardi che la SPR cerca di diffondere la cultura e l’arte a tutti!
- Con libri in cotone di chiffon da 3000 euro? Strategia curiosa, non trova?
- Ma acquistandolo si entra a far parte del Golden Academy of Royal Art…
- Giorgio, se vuole approfittare ha smesso di piovere.

È educato fino alla fine Giorgio. Sorride, stringe mani e profuma come fosse fatto anche lui con tecniche rinascimentali. Magari anche la sua barba – ammesso che gli cresca – è intessuta di seta.

Quella sera ho immaginato i collezionisti SPR che, ridotti in miseria per via della recessione, scaldavano il loro inverno con il più costoso dei falò.
E ho immaginato con gusto bambini africani ridere di loro con allegria.
Senza l’ombra di cattiveria, né di rivalsa.

giovedì 9 ottobre 2008

Ferie d'ottobre

Ogni pomeriggio, alla stessa ora, Don Placido compie lo stesso rito. Ogni pomeriggio il monaco lascia il bancone della sua erboristeria, attraversa il piazzale e si siede sul muretto. I gatti vicini e lo sguardo lontano.
Mi piace immaginare il suo sguardo ottantenne dietro gli occhiali tartarugati, lo sguardo che non riesco mai a vedere. E mi piace anche immaginare a cosa pensa, o a chi. Altra cosa che non posso vedere.
Ho immaginato donne e paesi nascoste nelle pieghe della sua tonaca nera, avvolte nel reliquiario della sua anima. E poi studenti, amici, confratelli, abati. I parrocchiani che aveva educato a lottare e di cui mi racconta sempre con orgoglio.


- Don Placido, come sta?
- Mio caro Benjamin, come vuoi che stia? Vecchio!
- Ma che le importa? Quando si è giovani dentro…

Sorride. Lo sa che lo dico per una sorta di gioco delle parti, sa che recito la parte educata. Ma questo gioco gli è sempre piaciuto.

- Allora Benjamin, quando hai detto che vai in ferie?
- Fine ottobre Don Placido. Se tutto va bene…
- Sempre il solito sfaticato… Dunque mi sa che non ci rivediamo.
- Ma guardi che torno dalla toscana, sa? Non sono poi così sfaticato!

Sorride. Gli piace il suo ruolo da bisbetico. E piace pure a me.

- E guardi che voglio trovarla in forma!
- Caro mio ma che hai capito? Guarda che vado al mare pure io!
- Ma và? Hai capito Don Placido? Si tratta bene il monaco insomma…

Sorride.

- Ma dove va al mare?
- E dove vuoi che vada? Torno a casa… a Salerno…
- Bene. Le farà bene Don Placido. Allora ci vediamo al rientro dalle ferie… e mi mandi una cartolina!

Sorride.

Don Placido non tornerà. Ha detto all’Abate che non è più in grado di svolgere il suo compito e quindi andrà in pensione, o qualcosa di simile. Dopo tre anni non troverò più le chiacchierate con Don Placido al mio rientro.
Io questo già lo sapevo.
Lui già lo sapeva.
Ma ha sempre apprezzato il nostro gioco delle parti.


giovedì 25 settembre 2008

Rapidamente.
Freneticamente.
Scorrono le persone come scorre il tempo.
Anzi, scorrono le persone portandosi dietro il tempo.
Che scorre e se ne frega.

E mi manca la bottega, e mi mancano le persone che la frequentano.
Mi manca la bottega come mi manca il poter coltivare quella parte di vita che inferno non è.

Mi manca quell'unico luogo dove nessuno chiede e nessuno pretende.
E dove allo stesso tempo tutti ottengono.

Mi manca una persona. Una, due, dieci persone.
Che non chiedano e non pretendano altro se non lo stare insieme...

«Di troppe cose non so cosa farne,
per me che avrei bisogno
di poche immagini
ma eterne..
GG

mercoledì 27 agosto 2008

Poi

Poi piove.
L’annuncio di settembre lava il mio spirito
e lo prepara all’ennesima rinascita.

Poi piove.
E le cose cominciano a tornare al loro posto.

domenica 27 luglio 2008

Siamo stati naviganti senza conoscere la rotta

Ora lo so per certo: ricorderò il 2008 come l’anno dei cento fallimenti. Su dieci avventure iniziate ne stanno naufragando otto… i problemi si accavallano e si inseguono nella mia testa fino nel cuore della notte, quando mi rotolo nel letto come un pollo sullo spiedo.
Metafora suggestiva ed appropriata quella del pollo. Ci accomunano la somiglianza caratteriale e la sistemazione poco felice (per il volatile) dello spiedo nello spiumato deretano. Ma come sapete preferisco le ormai vetuste metafore marinare…

L’anno scorso cento cose in porto quest’anno cento naufragi. C’è un non so ché di perfetto e inquietante in questa simmetria. Qualcosa che richiama alla mia mente ineluttabili bioritmi e fantomatici tarocchi, destini contro cui sembra sempre inutile opporre resistenza. E tutto si tinge di un sottile senso di impotenza, simile a quello di chi osserva da fuori una nave affondare e non può farci nulla. Pure se la nave affonda lentissimamente, prendendosi tutto il tempo necessario all’operazione. Tu stai lì. Su una scialuppa o sulla banchina, non importa. E ti dispiace quello spettacolo. Che poi te ne fregherebbe pure poco: mica è tua la nave. Non ci stavi manco dentro. Magari te ne stavi bello riparato sul tuo molo… lì che osservavi la ripetitività delle onde e i pescatori silenziosi e le bagnanti abbronzate.

E intanto la nave affonda.

Lentamente.

Inesorabilmente.

ALT! Attenzione people, è il comandante Benjamin Brown che vi parla. Il comandante raccomanda ai signori di mantenere la calma e di raggiungere con ordine scialuppe e giubbotti salvagente. Pare proprio che la nave stia affondando signori. È ragionevolmente possibile che la colpa sia del comandante e nel caso il comandante stesso vi porge le sue più sentite scuse. È immensamente dispiaciuto di aver interrotto la rotta delle vostre vacanze e il sonno delle vostre cabine. Nel porgere le scuse più sentite si augura che possiate presto riprendere le vostre vacanze e i vostri lieti sonni.
Però ci terrebbe a ricordare ai vacanzieri naviganti che il suo fallimento nasce da un motivo molto preciso e di cui si assume ogni responsabilità: il comandante ha condotto questa nave fino ad oggi.

Dear all,
ricordate sempre che fallisce solo chi prova, chi agisce, chi osa, chi sperimenta, chi crede, chi vuole.
A tutti gli altri il comandante augura di non svegliarsi mai dal dolce ventre materno della propria mediocrità.

mercoledì 16 luglio 2008

Ben's House

Oggi ho continuato a colorare la Ben’s House. Alla camera rosa-gazzetta è seguita la sala azzurra e oggi l’anticamera giallo girasole. Ho comprato sei sedie di paglia e le ho colorate di blu.
Casa Brown contiene molti colori orgogliosi, sembra un quadro di Van Gogh, per intenderci. Mancano solo un paio di cipressi tormentati di fuori.

Stasera vorrei raccontarvi Casa Brown fra dieci anni.

Ci sono io. Io da solo che però solo non sono mai perché ogni tanto suona il campanello e mi trovo alla porta una persona che conosco.
Ogni persona che conosco sa di poter trovare un rifugio in questo microscopico pezzo di Appennino.
Ogni viandante sa di poter trovare qui acqua e vino e pane e formaggio.
Ogni cantastorie sa di poter trovare un caminetto acceso e una chitarra.
Ogni bambino sa che qui ci sono prati e altalene da riempire con le proprie risate o con i propri pianti.
Ogni problema sa che qui non troverà soluzione ma orecchie pronte ad ascoltarlo.

E mi piacerebbe veramente tanto se alle volte, magari casualmente, potessero entrare in contatto viandanti e bambini, problemi e cantastorie. Scoprirebbero che possono completarsi a vicenda, scoprirebbero che forse tutto quello di cui abbiamo bisogno risiede nel senso di comunità fine a se stessa.

Avevo bisogno di chiudere in un cassetto della bottega questa utopia. Forse la Casa Brown che sogno è un po’ la versione fisica di questo luogo mentre la realtà è che passerò la vita dove troverò un lavoro stabile, magari nella Capitale. O più lontano, o chissà.

Però volevo sapeste che in questa porzione di Appennino c’è una porta sempre aperta, un coloratissimo silenzio e uno spazio in cui non esiste il giudizio, non esiste la paura e non esiste vergogna.

Un luogo che non conosce debiti.
Non all’amore, non al denaro né al cielo.

lunedì 14 luglio 2008

Deja vu

E rimettere le mani sul violoncello e poi sul piano e accorgersi di quanti mesi sono passati senza aver prodotto una nota e ancora imbattersi nella storia d’amore di Amedeo e Jeanne fra le righe di Vinicio e poi ritrovarsi internamente, sinceramente, malinconicamente commossi senza aver versato una lacrima che non fosse apparente…
Di quando lui suonava e lei ascoltava. E lui suonava e lei baciava. E lui suonava e lei osservava le mani di lui fra i tasti dell’altro. Mentre le mani di lei si immergevano nei capelli (pochi) di lui.

Raramente ci accorgiamo di quanto siamo stati fortunati. Una volta una ragazza mi ha voluto bene nonostante sapesse come suono...

sabato 28 giugno 2008

Le mele di Cezanne


Le mele di Cezanne come il senso della solitudine buona. Le mele di Cezanne come il mistero di quelle cose che riconducono l’uomo verso sé stesso.

L’ultima immagine dell’“Età barbarica” di Arcand è molto bella… l’Uomo che durante tutto il film ha cercato di combattere la propria solitudine, l’incomunicabilità con la famiglia e il lavoro frustrante trova una via di speranza proprio nella solitudine. Non nella solitudine fatta di tutti, di cui ho parlato altre volte, ma nella solitudine vera. Nella fuga mundi.

Non bisognerebbe mai vivere troppo a lungo immersi nella quotidianità.

La quotidianità corrode il senso della vita.

E alla lunga rischia di corrodere il senso delle mele di Cezanne.

lunedì 23 giugno 2008

Panta rei...

Ad un certo punto mi sono girato e l’ho vista alla porta. Bellissima e raggiante nel suo abito da sposa.

- Ben…

Sorrideva.

- Ben… come sto?

Mi sono avvicinato, le ho preso le mani e ho cercato di domare il mascolino imbarazzo.

- Sei un incanto Mara… stai benissimo…

- Dici sul serio?

- Ma certo. Chi l’avrebbe mai detto che un giorno…

Si prova una sensazione strana ad essere l’invitato-cameraman delle nozze di persone con cui sei stato ragazzino insieme. Non vi nascondo che vederla immersa in quella nuvola di tulle sia stato piuttosto… vabbè, non volevo usare questa parola.

Vederla è stato oggettivamente emozionante.

Sì, Benjamin Brown, nove anni di matrimoni alle spalle, un po’ si è emozionato. Perché Mara è egocentrica, svampita e naif. Ma la conosco da quando aveva quindici anni e come me tutto il gruppetto di amici della panchina.

Durante la messa Mara mi ha fatto più volte l’occhietto e la linguaccia.

E anche se la sopporto a fatica da quindici anni, avrei voluto ringraziarla per quel “Ben… come sto?” che in un istante mi ha fatto attraversare 15 anni di vita, di amicizia e di innocenza.

Cazzo come sto invecchiando…

mercoledì 18 giugno 2008

Impertinenza


E ancora, imperterrita e presuntuosa,
qualche bambina si ostina
a giocare con un pezzo di corda appeso ad una ringhiera.

Graffiando con le sue risate impertinenti
la storia che ha scavato questi vicoli.

domenica 15 giugno 2008

Compagni di scuola

E poi, ai matrimoni, incontri i vecchi compagni di scuola. Almeno una volta a stagione. Almeno una volta a stagione c’è un compagno di scuola che non vedi da anni e che – ovviamente ubriaco – ti invita al brindisi.

- No grazie, lo sai che non bevo. E poi figurati in servizio…

- Ma non rompere i coglioni Ben…

Mi bagno le labbra. Meglio perdere una battaglia che la guerra.

- Allora come stai Ben, dimmi dimmi… che fai nella vita che fai? Fai i matrimoni?

- Mah, in realtà… si, dai. Ogni tanto faccio qualche lavoretto… ma dimmi di te! Che fai che fai nella vita di bello che fai?

- Io? Lavoricchio pure io… un po’ qui un po’ lì. Certo non come Sergio…

Come temevo. Nella mia precedente vita penso di essere stato un gerarca nazista. Altrimenti non si spiega il motivo per cui da dieci anni mi tocca continuamente prendere parte al rito penoso del “where’s who?”… Quello si è sposato (“s’è ingabbiato, l’amico! A me quando me fregano?”), quello è andato a vivere in India (“eh sì, è sempre stato un tipo strano strano”), l’altra è rimasta incinta (sguardo malizioso), quell’altro è dottore (“che vuoi… è sempre stato un genio…”).

Oggi ero così preparato che in quindici minuti ho snocciolato nomi, cognomi, occupazioni ed eventuali matrimoni dei 26 personaggi passati per il nostro liceo, completando la performance con un sorso di spumante e raccogliendo uno stupito “Ahò Ben, ma sai tutto! Beh certo, a forza de matrimoni…”.
Eh sì, so tutto e c’ho un po’ le palle piene di questo rito.
Mi mette tristezza, mi ricorda “Compagni di scuola” di Verdone...
E mi ricorda che il tempo se ne frega delle nostre malinconie e delle buone intenzioni con cui vorremmo evocare i “bei tempi andati”. Che poi – ad essere pignoli – “bei” non erano proprio, avendo i loro consistenti lati di merda.

La realtà è che il tempo se ne frega anche di quei lati di merda.

E come un placebo ci regala l’illusione di un bucolico, spensierato, gaudente passato liceale.

Forse dovrei iniziare a bere.

sabato 7 giugno 2008

Notturno numero due

In Irlanda c’è una frontiera di roccia dove il vento urla furioso e continuamente si confronta con l’atlantico grigio.

Lei ama la tempesta. Alle volte, mentre sto in cucina, la osservo attraversare il prato e sedersi di fronte all’attesa del tempo. Lei e il temporale si studiano, si osservano. Lei cerca i suoi occhi all’orizzonte e lui si cheta. Il mare si placa un poco. Come i suoi capelli neri, sparsi un po’ ovunque sul viso.

Li osservo dalla finestra azzurra. Sembrano entrambi fatti di elettricità.

Poi il cielo si mangia Inis Meáin e il vento riprende a sbattere il mare contro la pietra, sempre più forte. Lei si alza e si avvicina allo strapiombo. Si volta di scatto: è la voce della roccia che la chiama. Il mostro lancia il suo lamento, un lamento di acqua e pietra che proviene direttamente da dentro, dal cuore stesso dell’isola. Da quello che i vecchi chiamano poll na pBeist, l’antro del serpente.
I suoi occhi tornano all’orizzonte, i capelli scarabocchiano l’aria.
Le mani si irrigidiscono, le labbra si contraggono.

Sono certo che potrebbe.
Da un momento all’altro.
In un istante.

Potrebbe, si, potrebbe lanciare il verde dei suoi occhi contro il cielo.
Potrebbe, si, aprire le mani e afferrare l’intero strato di nubi.
Potrebbe fondere la roccia, si, lo so che ne sarebbe capace.
Potrebbe, si, so che potrebbe – se solo lo volesse – spalancare il suo ventre e lasciar esplodere una forza più devastante di tutte quelle nubi, di quei fulmini e di quel mare.

Lo sanno fare tutte le fate da queste parti. Ma io vorrei che restasse ancora in questa casa di paglia e sassi.

Allora esco.
Le metto lo scialle sulle spalle.
E lei sorride.
Ancora non fuggirà.

martedì 3 giugno 2008

Se morissi...

... mi riposerei.
Tanto.

lunedì 26 maggio 2008

Se morissi...

... vorrei che tutti - ma proprio tutti - si sentissero appena un pochino più soli.
Come mi sento solo io, in questo periodo pieno di tutti.

Son soddisfazioni. Dicono.

La settimana appena trascorsa è stata satura di "cose" che dovrebbero rientrare alla voce "soddisfazioni".
La prof di tanto in tanto mi fa condurre le lezioni, i miei compagni fanno il tifo per me, ad agosto mi hanno commissionato un'altra mostra fotografica in una sala del '400, il sindaco mi convoca al comune per sottopormi progetti, l'abate e il priore mi chiedono favori.
Trovate il numero di Benjamin Brown sotto quello della croce rossa, insomma.

Soddisfazioni si, soddisfazioni.

Però sto iniziando a vivere per il lavoro.

E ogni sera, in camera, mi sento un po' più solo. No, non è vittimismo. E' proprio una sensazione... una sensazione difficile da definire e in fondo estremamente banale da provare. Cavolo, tre quarti dei bloggers si sentono soli.
Però stavolta è un po' più triste. Forse perchè in effetti incontro continuamente un mucchio di gente... con cui rido e scherzo ma che non allevia la mia solitudine.
Forse è la malattia dei sangue misti...

domenica 11 maggio 2008

Se morissi...

... vorrei che il comune trovasse una piccola piazza nel centro storico, ma piccola davvero, e la intitolasse a Benjamin Brown.

Piazza
Benjamin Brown
simpatico cialtrone

Poi vorrei che obbligasse ogni pomeriggio tre bambini diversi a star lì, per riempirla del rumore sordo dei calci dati ad un pallone arancione. Si, è importante che siano obbligati a farlo. E che il pallone sia arancione.

Mi sentirei utile.

mercoledì 30 aprile 2008

Orchestre comique


Ieri sera ho deciso di andare a L'Aquila per ascoltare e fotografare il primo concerto dell'orchestra comica in cui si è arruolata la mia sorellina (quella piccola).
Sinceramente non avrei mai pensato di emozionarmi nel vederla, minuta e concentrata, immersa nella sezione di archi e nel suo spartito.

Ne sono molto orgoglioso.

martedì 29 aprile 2008

Fotografi & fotografi


Mi ricordo ancora la prima volta che l’ho vista. L’ho presa in mano con estrema cura, come fosse fatta d’aria. L’ho guardata a lungo, mi ricordo. Nera, immacolata, perfetta. La mia prima reflex digitale. Una manciata di megapixel, un valzer di circuiti stampati e molti, molti bit sparsi più o meno a casaccio.
Oggi la lascio. Oggi la vendo. Un tizio ha risposto all’annuncio e mi ha chiamato venti volte in due giorni: “si, mi fido, non mi fido, è che vorrei… non vorrei… ma se vuoi…
Mi chiedo se se la merita. La mia è una signora macchina, tecnologia giapponese di avanguardia, mica chiacchiere. Mi chiedo se sarà in grado di trattarla con cura, di apprezzarla come merita. La mia piccola.
Però sembra un tipo a posto. Piero Marsili. Piacere. Si, tutto bene, anche tu no? Io? Ah, sei del ’60… complimenti, te li porti veramente bene…

- Grazie! Scusami se sono un po’ imbranato nelle compravendite…

- Non ti preoccupare, adesso ti mostro la documentazione. Allora: questa è la card, questa…

- Sai, ho iniziato a fotografare con mia moglie, quando eravamo fidanzati, ai tempi dell’università. Non avevamo una lira all’epoca… ricordo che comprammo una Zenit! Ma magari non te le ricordi le Zenit…

- Come no? Sono giovane ma ho molti zii… tieni, provala col tuo obiettivo.

- Accidenti come pesa!

- Beh, questa è una signora macchina…

- Si sente! Mi ricordo che passammo dalla Zenit alla Pentax. Poi ci fu una parentesi piuttosto lunga… in cui vendemmo tutto per passare ad una compatta…

- Nooooo! E come mai?

- Sai, un figlio ti cambia proprio la vita.

- Ma come? Avete smesso di scattare in reflex quando avete prodotto il modello?

- Non hai idea di quante cose ti devi portar dietro quando hai un bimbo piccolo! La reflex era veramente troppo ingombrante… ora il piccolo è diventato grandicello ed eccomi qua! Ieri gli è presa una crisi allergica, sai?

Improvvisamente non ho più voglia di parlare di diaframmi, otturatori e pixel. Sono seduto in un autogrill alle porte della capitale e sto chiacchierando con un quarantottenne piuttosto elegante che fino ad un quarto d’ora fa neppure conoscevo. E questo tipo sconosciuto continua a raccontarmi della sua vita, di sua moglie che fa la biologa e di suo figlio. Di suo figlio che va agli scout, di suo figlio che fa pallavolo, di suo figlio che è allergico alle graminacee. Quest’uomo perbene che compra una macchina fotografica semiprofessionale orgoglioso del fatto che nel pomeriggio la userà per fotografare il suo ragazzo.
Dopo un’ora passata nell’autogrill a separarci è una stretta di mano e la proposta di un nuovo incontro che tanto so già non avverrà.

Ho venduto la mia macchina fotografica. Ho venduto l’occhio di vetro che ha fotografato mia nonna che non c’è più, che ha immortalato il mio perduto amore, e poi il viaggio a Parigi con Ainda, la mostra della scorsa estate, i progetti movie, la vittoria ai mondiali, la ristrutturazione di casa nuova, la luna, la piccola Milena, i mille viaggi in treno, le gite associative, l'ospedale di Padova, le mie sorelle e mio fratello, i tramonti innevati…

domenica 20 aprile 2008

Bolle


Frammenti di una bolla di sapone invadono l’aria.

I colori svaniscono.

L’amarezza invade l’anima.

L’aria custodita dalla sfera non era diversa da quella fuori.


- hai avuto molta pazienza... ti devo ringraziare.
- grazie a te per la bellezza di questi mesi...

- capirai... e scusami per tutto il tempo che ti ho fatto perdere...
- non dirlo mai più...
Sorride.
- buonanotte allora...
- buonanotte...

giovedì 17 aprile 2008

Cinema mon amour...

Richiamato all'ordine da Calimero, piazzo un post provvisorio. Non nel senso che lo tolgo ma nel senso che non sarà un granchè. E' che durante queste settimane di università avrei da dire moltissime cose ma, come sempre paradossalmente mi accade... non riesco a scrivere nulla perchè non so' scegliere.
Però una triplice raccomandazione ve la lascio qui in bottega: negli ultimi dieci giorni ho visto tre film bellissimi al cinema che vi raccomando caldissimamente.

  1. Tutta la vita davanti. Attenzione però: è tanto bello quanto doloroso. Vi giuro che fa male, ma male fisico. Se poco poco siete giù di morale evitatelo come la peste. Soprattutto le femminucce.
  2. Juno. Che è bello. Bello e sereno come un bicchiere di succo d'arancia. Bello e candidamente luminoso come la protagonista. E come dovrebbe essere la maternità ad ogni età, senza Giuliano Ferrara ad imbrattarla.
  3. La banda. Che mi era stato consigliato mesi fa da Ainda ed è rarefatto e splendido. Un film di un'umanità sconcertante e vivida. Un film caldo e rosso come la fiamma di una candela accesa nell'oscurità. O come quella "My funny Valentine" alla tromba che di tanto in tanto riecheggia nella pellicola. E nel mio cuore.
A presto con nuove, mirabolanti avventure, :)
Ben

venerdì 28 marzo 2008

Grrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr

RABBIA!!!!
Ok, scrivo questo post sull'onda della rabbia ma stavolta sono proprio nero. Forse poi lo cancello. Forse.

Non faccio più parte del Progetto Movie.

E la cosa peggiore è il motivo: il vil denaro.

Quest'anno mi avevano (come al solito) considerato meno di zero. Mi avevano buttato nel progetto senza contattarmi direttamente, senza chiedermi neppure se ero disponibile a farlo e senza alcuna precisazione di natura economica. Alle mie richieste hanno risposto sempre con un "è tutto come l'anno scorso, Ben, tutto come l'anno scorso".
E dopo già otto incontri nelle classi mi convocano in ufficio per dirmi che quest'anno mi pagano un terzo degli scorsi anni. Per fare un quarto di lavoro in più, per giunta.

No. E che cazzo. Avete tolto il mio nome dai manifesti, vi siete presi per due anni meriti che non vi appartenevano e quest'anno oltretutto mi dite dopo un mese dall'inizio che mi pagate una sciocchezza?
No, belli de casa, Ben si è un po' rotto i coglioni di essere trattato come l'uomo delle pulizie del distretto sociosanitario.

Però quegli occhi e quelle voci... RABBIA! Avessi tempo lo farei gratis 'sto cavolo di progetto! Da solo lo farei però... 'fanculo agli psicologi dei miei stivali, al diavolo le assistenti sociali pettegole. I discorsi economici si fanno prima di iniziare a lavorare, cavolo! Non dopo aver illuso i ragazzi, maledetti... due sessioni d'esame mi ci sono giocato l'anno scorso... però quegli occhi... vigliacchi...

Ok, con calma... sapete qual'è la cosa che più di ogni altra mi rende furioso? Il fatto che per giunta la capa ha cercato di addossarmi le colpe: non è che quest'anno mi paghino poco. Sono gli altri anni che mi hanno pagato troppo! Sono io che sono avido e senza scrupoli! Non loro che hanno mangiato di gusto belle fette della torta e si sono prese i meriti su un palco senza alzare neanche un dito...
Benjamin, lo stronzo sei tu.

Ma come faccio a lasciare i ragazzi? Devo trovare una soluzione...
Non ho mai abbandonato in vita mia un treno in corsa.
Fa male.
Fa male.
Fa male.
Ma fa più male la mancanza assoluta di rispetto per un lavoro in cui credo e che amo e che ho sempre svolto con assoluta dedizione.
Un lavoro che però resta, per impegno e tempi e DIGNITA', un lavoro. Vero.

venerdì 21 marzo 2008

Profumi primaverili

Ci sono molte cose che rendono storica una giornata. Cose tipo quegli eventi che trasformano una data in una ricorrenza.
Beh, ieri si è verificato un piccolo evento.
Piccola premessa: da cinque anni procedono a singhiozzo i lavori di ristrutturazione di quella vecchia casa di campagna che molto presto (spero) sarà conosciuta con il nome di Casa Brown. Cinque anni di operai, muratori, idraulici, elettricisti, piastrellisti, fabbri e via dicendo.
Questa settimana ho iniziato a tinteggiare. La camera da letto. Rosa.
E non è questo l’evento.

Alle 16 del 20 marzo 2008, per la prima volta nella sua secolare storia, Casa Brown è stata invasa dal profumo di una moka. Una Bialetti da due tazze per la precisione.

Ci sono molte cose che “fanno casa”: il bagno finito con i primi asciugamani puliti, il pc sulla scrivania (lo so, è opinabile…), il suono del campanello di casa, rimediare una sedia a dondolo, lo spioncino sulla porta. Ma nessuno di questi è paragonabile al borbottare della Bialetti e al profumo di caffè che prende possesso dell’ambiente.

- Ma come cazzo t’è venuto in mente?

- Che?

- No, dico… il colore…

- ‘mbè?

- Rosa?

- Rosa

- Rosa finocchio…

- Rosa finocchio sarà camera tua! Questo è rosa-gazzetta-dello-sport…

- Peggio me sento. Pure interista…

- Che palle che fai… e sta’ attento co’ quel rullo! So’ proprio curioso de sape’ come farai camera tua…

- Ovvio. Giallorossa.

- Complimenti. Immagino la gioia della tua futura consorte…

- Sempre meglio che rosa… versa il caffè và, prima che se fredda… rosa finocchio… non c’hai mai capito un cazzo, Ben…

lunedì 17 marzo 2008

Diario di bordo n°1

E salpare, di nuovo. Quattro nuovi equipaggi, quasi sessanta nuovi marinai. Che poi sono centoventi nuovi occhi da accendere.

Salpare di nuovo, con carte rinnovate e terre ormai conosciute. Salpare con più certezze, sentire di possedere una cartografia più precisa che in passato.
Salpare con il preciso intento di raggiungere le Americhe e non le Indie.

Salpare con la voglia di formare nuovi capitani. Quest’anno le regole le detto io. Tutte. E allora largo ai marinai dell’anno scorso che vogliono tornare sul ponte, largo a chi ha ancora voglia di sentirmi urlare “silenzio, si gira!!”, largo a chi vuole stare davanti o dietro una videocamera senza volere in cambio nient’altro che il piacere di sentirsi parte di un equipaggio.

Il progetto Movie sta diventando una realtà. Quest’anno avevo deciso di non salpare per via della tesi che incombe. Ma non ho avuto il coraggio di cancellare la prima lettera dalla fronte di questo golem che diventa sempre più forte, sempre più potente. Un giorno sarà lui a difendere me, forse lo sta già facendo.

Miriam e Michela hanno recitato lo scorso anno e quest’anno non hanno tempo di darci una mano. Miriam ha deciso di tentare la strada della recitazione in una scuola della capitale e mi ha riempito di orgoglio nel dirmelo. Michela mi ha chiesto di leggere le poesie a cui si sta dedicando con assoluta dedizione. Vuole che le dia un parere e che le spieghi perché si sente così malinconica.

E’ arte, baby.

Sono contento. Che il tempo ci assista.

lunedì 10 marzo 2008

La macchinetta

La luce del primo pomeriggio romano entra timida dalla finestra di alluminio. L’infermiere ha gli occhiali calati sul naso e il corpo calato sulla poltrona. È ora di pranzo, la sua collega ha fame.

- Signor signor…

- Ranci.

- Benissimo. Ecco qua. Signor Ranci di Colle Orsini. Firmi queste carte, ora vi spiego come funziona la macchinetta.

Sul tavolo una dozzina di macchinette viola e bianche. Al di qua della barricata io e Marco. Io e Marco ci conosciamo da quando siamo nati: stessa età, stesso palazzo, stesse scuole fino al liceo.
Suo padre sta morendo.

- Allora: questo è l’apparecchio. Lo devi aprì così. Poi ce metti dentro il tubbicino della flebo così, come un cappio. Poi lo richiudi e je fai fa’ er fill. Quando è pronto fa un bippe e je puoi da’ er via. Capito tutto? Bene, rifallo.

Marco sorride, prende l’apparecchio, ripete le operazioni. Semplice. Mi guarda sorridendo e dice “semplice, no?”. “Semplice”, faccio io. Entra la dottoressa e avrà la nostra età. Fa un po’ impressione scoprire che le dottoresse del Policlinico hanno pressappoco la nostra età. Sorride poco, è molto professionale e stanca.

- Vi hanno spiegato come funziona?

- Si

- Bene, questo è lo schema della nutrizione. C’è scritto quanto dovete dare a vostro padre giorno per giorno.

A quel “vostro padre” ci lanciamo un’occhiata sorridendo. Nessuno dei due ha il coraggio di dire alla dottoressa che non siamo parenti. Penso anche che non gliene importi un granché. Ad un certo punto però lei spiega le cose più a me che a Marco e io mi sento un po’ in imbarazzo. Mi fa domande a cui non so rispondere. Alla fine ci congeda con un sorriso e una stretta di mano professionale. E stanca.
Per le scale inizio a chiamarlo “fratello”. Ci ridiamo un po’ su. Poi usciamo e tutto il resto è Roma.

- Ben, non ho voglia di tornare. Portame in giro pe’ Roma. Erano anni che non ce venivo.

- Te l’avevo detto io di prendere l’università… non m’hai voluto dar retta…

- C’avevi raggione. Guarda quante ragazze…

- Beh dai, non è mai troppo tardi

Sorride.
Sorrido.
Entriamo in macchina.
Il paese aspetta il nostro ritorno.

sabato 1 marzo 2008

Storie di ordinaria follia

Il prof era sempre stato seduto. A scuola, s’intende. Non era uno di quei prof moderni che chiacchierano con gli studenti o si siedono sopra la cattedra ammiccando. Il prof aveva attraversato venticinque anni di carriera scolastica seduto – o barricato, dipende dai punti di vista – dietro la cattedra. Colonna portante del biennio dei geometri, il prof dietro la cattedra spiegava la geometria e l’algebra seguendo una sequenza che con gli anni aveva assunto i contorni del rito: entrava in classe, attraversava il chiasso dei quindicenni, si sedeva e sbatteva con forza la mano destra sopra la cattedra. Non alzava mai lo sguardo. I ragazzi tacevano per cinque minuti, si sedevano e, come un moto inesorabile e rapido, tornavano a parlare fra di loro. Il prof non li guardava mai. Seguitava a spiegare in mezzo al frastuono, seduto, senza alzare mai lo sguardo. Il suo sguardo era sempre spento. A memoria di bidello il prof non aveva mai sorriso.

Dicono che la moglie fosse scappata con un altro, che la figlia non lo volesse più vedere. Dicono che sniffi e che beva ogni sera. Dicono che vada dallo psicanalista da almeno dieci anni e che abbia un’amante rumena molto più giovane di lui. Dicono che abbia perso un mucchio di quattrini al gioco. Dicono.

Ieri mattina il prof si è seduto, ha battuto la mano, ha atteso che i ragazzi facessero silenzio. Poi è rimasto zitto. Come in attesa. E, inaspettatamente, ha alzato lo sguardo. E sorriso. I ragazzi stavolta sono rimasti in silenzio.

- Il primo che parla lo pesto

Pare abbia detto proprio così. Ma nessuno ci ha creduto. Tanto che Michele ha risposto.

- Come professò?

- Michele vieni qui.

Michele si è avvicinato al prof sorridendo, nell’incredulità della classe. Il prof si è alzato, ha afferrato Michele per il colletto della camicia e quasi sollevandolo da terra ha attraversato tutta la classe, sbattendolo contro il muro. Poi ha sollevato la mano destra e lo schiaffo è stato così forte da spedire Michele direttamente contro il termosifone. A terra Michele ha ricevuto un paio di calci, prima di riuscire a fuggire piangendo.

Il prof invece ha preso il suo soprabito e, stando a quanto ha detto Pina, la bidella, ha presentato le proprie immediate dimissioni al preside.

State cercando la morale, il senso? Non c’è. Perché il fatto è accaduto veramente, questa mattina, a scuola di mio fratello.

martedì 12 febbraio 2008

Il piano inclinato

Dicono che ogni uomo passi una fase in cui sente di sbagliare tutto. Una fase in cui probabilmente sta, in effetti, sbagliando tutto. La sensazione è quella di essere la biglia lasciata scivolare su un piano inclinato. Puoi spostarti un po’ a destra o a sinistra ma non puoi far altro che scivolare.

Sempre più giù.

Quello che non dicono è che dopo un po’ l’angoscia cede il passo all’ansia e poi l’ansia alla preoccupazione. Poi finisce anche la preoccupazione e lì trovi quello che non ti aspetti: l’accettazione. Arrivi al punto in cui ti osservi dal di fuori, ti osservi precipitare, e non provi più paura. Forse è la stanchezza, forse l’abitudine, forse semplicemente pigrizia.

Fattostà che scivoli.
E non te ne frega più nulla.

Quando arrivi a quel punto il passo successivo può essere soltanto uno: la brusca interruzione del piano inclinato.

martedì 5 febbraio 2008

Peccati di gioventù...


Ok, lo ammetto. Avevo giurato che non lo avrei mai fatto. Mica perché ci sia nulla di male, percarità… però lo trovavo veramente disdicevole. Ho sempre pensato che avessi troppa coscienza per ficcarmi in certe situazioni. E invece… accidenti. Ci sono cascato.

Benjamin Brown è tra i (padri? ho sempre sognato di esser padre…) fondatori di un movimento civico.
Mi fa schifo dirlo ma ho paura di essere entrato in politica.
Il fatto è che se non mi do da fare per la società poi mi sento in colpa. Si, ecco, i sensi di colpa sono la mia rovina.

Ad ogni modo l’idea in cui sono stato coinvolto sembra interessante: un movimento politico completamente trasversale per ideologie (ammesso che esistano ancora) e militanza, per sesso e competenze. L’unico punto in comune è l’essere tutti under 32.
Forse è un modo pulito per provare a scrivere il futuro. Forse.
Entusiasmo? No, non troppo. La politica è sporca e fa male alla pelle. L’unica speranza è che la nostra età possa pulirla. Ma qualcuno intorno a me sembra già ossessivamente attratto dall’anello del potere, dallo scettro, dal santo graal che tutto può, dall’anello di Re Mida, da Durlindana e da Excalibur, dal regale trono e dalla corona, dal vello d’oro e dalla criptonite.

- Daje Ben, che quanno famo la presentazione chiamamo il tiggì3, la provincia, la reggione… daje che famo er botto, je famo un culo così a questi de mo’… famo un botto che non finisce più!

- A Gianfrà… ‘sti cazzi der botto… me basta vede’ che riusciamo a organizzare qualcosa di utile pe’ ‘sto dannato paese…

- Si si, vabbè certo… certo certo…

Non mi piace il tono con cui mi dà ragione. I leader hanno sempre un modo ambiguo di darti ragione… e poi io sono un pragmatico. Maledettamente idealista ma pragmatico. Per questo ho chiesto le quinte. Come Cirano.

Quello che vedete in alto è il logo che il sottoscritto ha creato per il movimento, spero vi piaccia. A me non dispiace troppo.
Penso trasmetta un po’ di quel senso di speranza che vorrei animasse questa nuova avventura.

Quando don Milani aprì la scuola di Barbiana, per prima cosa affisse una cosa su un muro.
Una scritta.
I care

domenica 27 gennaio 2008

Il cappotto - Una metafora postmoderna

Vi è mai capitato di innamorarvi a prima vista? No, scusate, stavo parlando di abbigliamento. Vi è mai capitato di vedere in una vetrina un maglione o una gonna e pensare «Fermi tutti! Quello c’ha scritto il mio nome sulla stampella!»
A me è successo un paio di settimane fa con un cappotto. Nero.
Devo premettere alcune cose: io odio i saldi e odio comprarmi vestiti. Però dicono sia un male necessario. Lo dice soprattutto tua madre se possiedi un cappotto vecchio e logoro che indossi ogni giorno di inverno da almeno otto anni.

E dunque in tempo di saldi mi sono avventurato nel centrocommercialepiùgranded’Europa (così dicono) alla ricerca di un degno erede del mio cappotto.

Dopo almeno 76 vetrine lo vedo: nero, avvitato, corto. 69.9 Euro. Quel cappotto ha Benjamin scritto sulla gruccia!
Entro con l’amico che incautamente si era offerto di accompagnarmi e me lo provo. Un guanto. Piccolo? No, non mi sembra. Mi guardo allo specchio: sembro un altro. Azzo che figo… mi guardo intorno furtivamente e faccio con nonchalance un paio di piroette davanti allo specchio. Si si, è lui, lo riconosco! Acrilico? Manco tanto. Quasi tutta lana. Meglio così, la plastica fa sudare. Piccolo? No, non mi sembra. Ho anche il maglione spesso sotto, se mi sta così mi sta con tutto.
Arriva la signorina. Taaaanto caruccia. Mi dice che secondo lei mi sta proprio bene. Sorrido. So’ troppo figo co’ ‘sto cappotto. Graziano annuisce. Chiedo a entrambi se lo trovano piccolo. Due coppie di occhi mi guardano attentamente e poi due bocche con gli angoli in giù mi rispondono di no. Che non sembra grande.

È fatta. È mio. Cappotto grigio, vecchio e logoro stai per andare in pensione!


Esco con il sacchetto di cartone che danno solo a quelli che acquistano cose troppo… troppo giuste per stare nel nylon. Mi sento già più bello, mi sento già… nuovo! Nuovo, si, mi sento nuovo! Che bello, non pensavo che sarei mai riuscito a sostituire il vecchio topone che mi riparava in inverno! La gente mi guarderà con occhi nuovi, gli amici mi chiederanno dove, come, quando… un cappotto nuovo è un po’ una rinascita, un voltar pagina. E questo mi descrive bene.
Perché l’abito non fa il monaco. Ma il cappotto…


Arrivo a casa.

- Mamma! Ho comprato il cappotto nuovo!

- Dio sia lodato! Non ti ci potevo più vedere con quel coso…

- Ecco qua! Eh? Come mi sta? Eh?

-

- Oh? Beh?

- Ma non è… piccolo?

- A Mà, ma che stai a dì?

- Boh. A me sembra piccolo.

- So’ io che so’ piccolo… mica me potevo compra’ ‘na 48…

- Ma perché, quanto è?

- 44

- 44?

- Eh…

Mia madre scuote la testa. Arrivano le mie sorelle.

- Carino si. Pare un po’… ma che è da femmina? No. Ah no, è che…

- Non è un po’ piccolo?

- Ancora? Che palle…

- Guarda che, secondo me, lì sotto il vestito non ti ci entra mica…

- Ma và, me lo so’ provato col maglione!

- E provatèlo…

Metto il vestito. Giacca e cravatta. Nel frattempo rientra pure mio padre e mio fratello.

- A Ben, ma che sei scemo? Manco un cappotto te sai comprà?

- Guarda che sto bene, mica tirano i bottoni!

- Eh, ho capito… ma è proprio risicato risicato…

Ma come? La commessa… Graziano… che fossero tutti impazziti? E io? A me sembra che sto bene, mi pare proprio… io mi ci sento bene! E infatti non ci hanno capito niente… io me lo tengo! Certo che… certo che se in cinque hanno reagito così… magari… boh, forse hanno ragione loro. Magari lo dovrei cambiare… ma non c’erano altre taglie, cavolo! E allora? Che sia veramente così risicato? Certo, mica mi va di far ridere la gente… mica mi metto a fare il pagliaccio in giro, io…

Ho riportato il cappotto al negozio. L’ho cambiato con delle felpe tribali per mio fratello. Sono uscito senza aver voglia di guardare nessun’altra vetrina. No no… forse è destino… l’anno prossimo sarà il nono inverno per il mio vecchio, logoro cappotto grigio. Dovrò ricucire gli strappi della federa, l’anno prossimo.

La gente non capisce niente.

Piccolo? Io ci stavo proprio bene con quel cappotto nero.

44.

venerdì 11 gennaio 2008

Può la mente umana dominare ciò che ha creato?

Interruzione, incoerenza, sorpresa sono le normali condizioni della nostra vita.
Sono diventate finanche dei bisogni reali per tante persone le cui menti non sono più nutrite (...) da nient'altro che mutamenti repentini e sempre nuovi stimoli (...).
Non riusciamo a sopportare più nulla che duri.
Non sappiamo più come mettere a frutto la noia.
(...)
L'intera questione si riduce dunque a questo: può la mente umana dominare ciò che ha creato?

Paul Valéry

lunedì 7 gennaio 2008

Ingannevole è il cuore più di ogni cosa

Le sue mani, fra le ombre intermittenti della macchina, prendono la mia. Sono calde e ingenue. Sono grandi. Sono ruvide.

Non accarezza la mia mano. Semplicemente la tiene, la stringe come se volesse portarsela via. Poi mi guarda e sorride e mi guarda e ride. E se tolgo gli occhi dai suoi ride di più e mi dice che ho perso.

Ho perso.

Intanto si accoccola sul sedile come farebbe un gatto. Mi guarda dal basso, mi guarda attraverso i suoi ricci. Sorride meno e pensa. Abbassa lo sguardo e dice che sono stupido. Lo so, rispondo. Dice che sta bene. Le dico che mi fa piacere.

In realtà tremo al pensiero che questa bolla di sapone rotola su un tappeto di spilli.

Si alza di scatto e fa una smorfia. Non ha voglia di tornare a casa. Lo so, ma deve. Non voglio che sua madre la sgridi. Mi risponde che non le interessa, che è per una buona causa. No, non lo è ed è meglio che vada. Le ripeto di darmi retta, che lo dico per il suo bene. Mi risponde che il suo bene è lì in quel momento. No! Piccola fuggi che io faccio male alla gente! Faccio male a chi mi vuol bene... Faccio male a te.

Mi da uno schiaffo ridendo. Non dire stupidaggini, dice. Non sono stupidaggini. Mi dà una spinta sorridendo. Si che lo sono. Allora fingo di farle il solletico e di nuovo sbaglio. Non chiedeva di meglio e me la ritrovo sdraiata in grembo, fra il mio corpo e lo sterzo.

Silenzio.

Non mi guarda più. Però dice che vuole restare così, dormire così fino a domani. Provo una tenerezza sconfinata. Vedo le sue speranze, i suoi sogni, i suoi problemi annodati fra i riccioli. Ci passo sopra una mano solo un attimo, come per liberarli. Lei chiude gli occhi. Dai, devi andare, tua madre ti aspetta da un quarto d’ora. Sbuffa a lungo. Sembra offesa. Come chiedersi perché rovino momenti simili. Non sa che lo faccio apposta. Si stancherà.

Prima di scendere le ripeto che non è possibile tutto ciò. Mi risponde che non abbiamo scelta. Ma certe frasi ce l’ha ne dna una ragazza? Rido. Si che ce l’abbiamo. In realtà penso che ce la scelta ce l’ho solo io e devo devo devo devo devo devo decidermi a tranciare di netto questa situazione prima che lei si faccia troppo male.

Ma fa male l’idea di perderla.

E certi sguardi fanno un uomo vigliacco.